Romualdo Prati – Biografia Italiano

Romualdo

UN TRENTINO POST-IMPRESSIONISTA A PARIGI

Romualdo Prati è stato l’unico artista trentino a vivere dieci anni a Parigi nel vivacissimo quartiere latino in pieno periodo della Bella Époque dal luglio 1904 al luglio 1914 ed è stato anche l’unico, originario della nostra terra, a partecipare per dieci anni al Salon degli artisti di Parigi ed a vincere una medaglia d’oro nel 1907. Il suo soggiorno a Parigi avviene nel periodo in cui Giovanni Boldini interpreta con eleganza la mondanità e il clima decadente di quegli anni con il suo singolare virtuosismo pittorico, Claude Monet, Edgar Degas, Auguste Renoir proseguono, nel neo impressionismo la ricerca del mezzo d’espressione e Pablo Picasso, Henri Matisse, artisti solari e violenti, di una vitalità prodigiosa, i primi ad avere il coraggio di rompere una tradizione artistica vecchia di sei secoli, creano l’arte del ventesimo secolo.A partire dal 1900, anno dell’Esposizione Universale di Parigi che reca gran prestigio alla città, molti artisti vi si trasferiscono tra il quartiere di Montmartre e la zona di Montparnasse, quartieri semi-rurali dagli affitti a bassissimo costo, attratti soprattutto dal clima particolarmente aperto e tollerante della città. Scrittori, poeti, pittori e scultori e dunque presenze eterogenee per cultura e nazionalità subiscono il fascino degli innumerevoli fermenti artistici che si sviluppano.Parigi assume, nel giro di pochi anni, una nuova fisionomia, poiché gli stranieri si riuniscono in gruppi negli stessi quartieri ricreando sovente situazioni simili a quelle del loro Paese d’origine. Numerose accademie private accolgono artisti stranieri: all’Accademia Colarossi e all’Accademia Carrière sono adottati metodi ancora molto formali, mentre la scuola fondata da Henri Matisse (1869-1954) è molto più innovativa e dirompente.Montmartre, la zona in cui si erge la grande chiesa del Sacré Coeur e in cui circola un clima da bohème, è il centro propulsore del cubismo e del fauvismo(1) . Nell’edificio del Bateau-Lavoir al numero 13 di Rue Ravignan, fabbrica dismessa di pianoforti dove esiste un solo rubinetto per lavarsi, Picasso lavora al periodo rosa, mentre Kees Van Dongen (1877-1968), dipinge le sue opere più spiccatamente espressioniste.Montparnasse, per la sua vicinanza con “l’Ecole des Beaux Arts” costituisce un polo di richiamo per scultori e pittori; al caffè “La Rotonde” o “Le Dôme”, i ritrovi preferiti degli artisti, s’incontrano spesso Pablo Picasso, Georges Braque, Amedeo Modigliani, Fernand Lèger, il pittore messicano Diego Rivera, lo scrittore russo Ilja Erenburg e i poeti Guillaume Apollinaire e Max Jacob.Anche Amedeo Modigliani (1884-1920), che ha arricchito la sua formazione all’Accademia di Venezia, dove studia dal 1903 al 1905, in occasione della Biennale internazionale di Venezia di quegli anni, si trova a tu per tu con la grande arte francese di fine secolo: gli impressionisti, Henri de Toulouse-Lautrec e il simbolista Eugène Carrière. L’impressione suscitata da questo incontro all’inizio del 1906 lo spinge anche lui a trasferirsi a Parigi e s’iscrive all’Accademia Colarossi, dove entra immediatamente in contatto con l’ambiente artistico di Montmartre.Nel quartiere di Montmartre, si svolge anche la vicenda della pittrice Suzanne Valadon(2) , madre del pittore Maurice Utrillo, che posa come modella e come musa ispiratrice per numerosi giovani artisti, tra cui Degas, Renoir, De Chavannes, Picasso e Toulouse-Lautrec, i quali la incoraggiano a proseguire nella strada della pittura, apprezzandone il talento.In un articolo di Vittorio Zippel del 13 marzo 1911 pubblicato dall’ “Alto Adige” in cui gli era stato chiesto se riteneva impressionista la sua pittura, Prati rispose: “Ho sempre avuto avversione per metodi e scuole. Cerco di dipingere secondo il mio temperamento, ispirandomi al vero, che è l’unico maestro per chi voglia riuscire pittore”.Nella pittura di Prati si nota una varietà di espressione che va dai primi tentativi accademici di stampo romantico, verista e illustrativo fino all’aperta ribellione all’accademia. Egli ricerca parecchie vie per esprimersi anche se sembra per il suo temperamento non sia mai arrivato ad una forma artistica stabile.Prati comunque è il pittore della luce, delle trasparenti chiarezze e della luminosità solare che inonda sempre i suoi quadri, pregni di poesia e di incisività. Le sue tele esuberanti di colore sono d’interesse pittorico, in quanto espressione di un’arte legata alla realtà quotidiana, la pittura “en plein air”, in altre parole l’esecuzione all’aria aperta, con il soggetto illuminato dalla luce del giorno, ma anche di valore storico, in quanto testimonianze d’usi, costumi e di luoghi ormai scomparsi dell’alta Valsugana.Amò i soggetti umili, i contadini, i paesaggi, gli animali, la natura morta, in particolare le uve e le pesche, e ne seppe rendere l’espressione con semplicità e rara maestria, utilizzando le mescolanze ottiche di toni, di colori per la ricerca di una luminosità intensa che aveva imparato a Parigi frequentando gli artisti del neo impressionismo.La vera grande rivoluzione nell’arte contemporanea, a cui appartiene la pittura di Prati, è scaturita quando gli artisti, abbandonati i temi storici e le grandi scene di battaglie, affrontarono studi sulla luce passando dal chiuso dei loro atelier all’aria aperta. Iniziarono allora a scrutare non solo ciò che appariva al loro sguardo, ma anche il mondo spesso difficile, dei sentimenti e delle emozioni.Romualdo Prati ha saputo ritrarre con spontaneità e brio la dura vita di campagna del tempo cogliendo gli aspetti piacevoli e dolorosi della realtà. Nelle sue opere immortalò i monti e i boschi della Valsugana (“Bosco di castagni”, “Antiche quercie”, “Macchie di bosco”) il lago di Caldonazzo, gli angoli caratteristici di Calceranica, Levico, Caldonazzo e la gente comune della propria terra, stabilì un continuo colloquio con la natura e lo spirito libero che lo contraddistinse lo portò ad un’eccellente espressione artistica costituita da forti tonalità di colore e da mescolanze ottiche.Dai dipinti di Prati traspare la fatica del duro lavoro giornaliero e la serena accettazione del proprio umile destino ma anche la profonda comunione con la natura le cui bellezze sono esaltate dal pennello dell’artista.Dal periodo parigino in poi il colore vivo puro è la materia d’espressione di Prati, la forma conta di meno, il colore diventa l’elemento costruttivo della raffigurazione; utilizza una gamma di colori ridotti il giallo e il rosso, lo smeraldo e il cobalto, la terra e l’ocra, il bianco e il nero che sono accostati tra loro. Il suo obiettivo è portare il colore e la luce al massimo splendore, è la gioia di vivere, la gioia di un istante ma d’intensità infinita e la sua tecnica si basa sull’esaltazione cromatica data dall’accostamento di tinte e toni diversi secondo il principio del contrasto luministico.Gli impressionisti cercano di restituire sulla tela, intuitivamente, ciò che l’occhio effettivamente coglie: solo delle macchie luminose dai colori diversi, a seconda della lunghezza d’onda che colpisce il nervo ottico. Le loro tele non imitano più la natura, ma sono composte di vibrazioni luminose con una nuova pennellata e una nuova tavolozza. Quello che interessa loro è quanto avviene nella retina, la cosa importante è il processo percettivo, i quadri sono espressione di atmosfera, il soggetto perde ogni valore intrinseco e le sfaccettature della luce e del colore sono catturate da piccole pennellate rapide e vibranti.L’arte post-impressionista comporta una straordinaria varietà di soluzioni moltiplicatesi sulla importante scoperta della luce come elemento portante della composizione e in molti dipinti su cartone o su tavola di piccole dimensioni Romualdo Prati, interpretando il pensiero impressionista, lo adatta alla propria personalità ed usa non più il tocco di colore, ma brevi pennellate piene, rapide ed intense, tocchi di colore rettangolari simili ad un mosaico, in modo che si mescolino nella percezione visiva solo da una certa distanza.Carlo Piovan li definisce “cartoni febbrili sui quali egli gettava d’impeto colore e colore con la spatola vigorosa, o sui quali egli s’indugiava tranquillo in un’ora di equilibrio, quasi pare di atarassia, a soffondere delicate trasparenze di cieli di primavera, dietro rustici di casette sommerse nel verde o su cui spiaccicava biacche, giallastre o rosee, di borghi assopiti in un’ora meridiana d’estate”.Le sue immagini sono colte dal vero e costruite attraverso un fluire continuo di masse dense che s’integrano e s’amalgano con alberi, fiori, cespugli e acqua, creando un’emozione visiva scintillante come scrisse il famoso pittore realista Eugène Delacroix “La prima virtù per un dipinto è di essere una gioia per gli occhi”.L’acqua poi del suo amato lago di Caldonazzo la dipinge con effetti cromatici tali da creare delle vibrazioni luminose intense molto emozionanti. Prati ha avuto indubbiamente la sensibilità dell’artista e il suo valore, dimostrato anche dalla sua partecipazione per otto anni al Salon di Parigi, dovrebbe essere rivalutato come scrisse nel 1931 il critico d’arte Carlo Piovan “i suoi parecchi tentativi mi paiono di notevole valore, anche se io ripugni più che mai dal gridare miracolo a ogni rondine solamente che guizzi attorno a un campanile di Trento”. Romualdo Prati nasce il 3 febbraio 1874 a Hofgarten presso Salisburgo in Austria da Stefano Probo Prati operaio ferroviere di Caldonazzo e da Natalia Fianick, nativa di Praga.I nonni paterni sono Domenico Prati (1808-1867) geometra e amico del barone Giovanni a Prato e Lucia Garbari figlia di Giuseppe Garbari e di Lucia de Negri di Calavino, sorella di Gioacchino Garbari, noto per il suo patriottismo irredentista e per essere stato sindaco di Caldonazzo per molti anni, obbligato all’esilio per evitare l’arresto dopo la ritirata del gen. Giacomo Medici e delle sue truppe nell’agosto del 1866 durante la terza guerra d’indipendenza.. Il bisnonno paterno Stefano Prati (1763), sposato dapprima con Caterina Tomasi e poi in seconde nozze con Lucia Zamboni, è sindaco di Caldonazzo nel 1796 durante l’invasione napoleonica ed è noto per essere stato spogliato dai francesi dei suoi indumenti inferiori scarpe e scalze da quei liberatori ai quali era andato incontro con la sua giunta comunale al capitello dell’Ulba per un omaggio che doveva invano mitigare le loro intenzioni.La figlia Ofelia sposata Sartori in una lettera inviata a Riccardo Maroni il 3 febbraio 1954, in merito alla richiesta di realizzare una monografia, esprime il suo rammarico per la perdita della documentazione artistica del padre dovuta ad un incendio: “Capisco la difficoltà di raccogliere notizie esatte sulle opere di mio padre per poter fare un lavoro approfondito.Mia madre da tanti anni lontana da quell’ambiente, credo non saprebbe dare informazioni e chiarimenti ed è un gran peccato che quanto avevamo di articoli, fotografie e cataloghi di esposizioni, sia stato distrutto dal fuoco”.Dopo un anno la sua famiglia si trasferisce a Caldonazzo, dove trascorre la sua giovinezza con il fratello Rinaldo più giovane di un anno, frequentando gli zii Eugenio e Giulio Cesare Prati entrambi pittori e così imparando i primi insegnamenti di pittura. L’amore per l’arte è una nobile tradizione della famiglia Prati e l’incontro pure saltuario con lo zio Eugenio (1842-1907) negli anni ottanta, ormai artista affermato, tornato a Villa Agnedo in Valsugana dai soggiorni a Venezia, Firenze e Roma, fu senz’altro decisivo nello stimolare in Romualdo l’amore per l’arte pittorica.Nel 1887 a tredici anni si trasferisce a Trento e lì prosegue il corso di studi secondari presso la scuola professionale diplomandosi nel 1889. Del periodo 1889-91 Prati ci ha lasciato alcuni disegni a carboncino e a matita di ritratti della famiglia; “I nonni Lucia Garbari e Domenico Prati”, “Lo zio Anacleto” e “la zia Monica Vigolani” moglie di Anacleto. Nell’autunno del 1890, mentre suo zio Giulio conclude i suoi studi all’Accademia di Brera a Milano, su consiglio dello zio Eugenio s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia, seguendo gli studi del maestro Pompeo Molmenti, che era stato insegnante anche di Eugenio. Nei primi anni di studi lo segue anche lo zio Eugenio Prati che molto spesso soggiorna a Venezia, specialmente nel 1890, per lavorare ai dipinti “I primi fiori a Venezia”, “Canal Grande” e “Verrà”.In questa città si guadagna due premi con medaglia e un diploma nei concorsi banditi dall’Accademia. Nel 1891 ottiene il primo premio nel corso speciale per vedute di paese e di marine e nello stesso anno riceve il diploma di merito con menzione onorevole di secondo grado per il corso normale con l’opera “L’ubriaco” in cui ritrae un amico ubriaco che si è addormentato sul suo tavolo Biedermaier nel suo studio di pittura di Venezia. Carlo Piovan nel “Trentino” del 1930 lo descrive “c’è un tavolino su cui, stando seduto, reclina il capo un alcolista; sfondo, la cameretta di questo vizioso ch’è vestito e calzato decentemente e ha i capelli scarmigliati. Ecco il romanticismo moralizzante ed ecco i primi ingenui accordi della sua sensibilità d’arte”.Francesco Ambrosi nel 1894 è pronto a scommettere sulle grandi potenzialità dell’artista e scrive nel suo libro Scrittori e artisti trentini “si trova ancora a Venezia e progredendo negli studi sia nel disegno sia nell’impasto dei colori fa concepire le migliori speranze ad un’ottima riuscita”.Sempre del periodo veneziano è conservato presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto un olio su tela di cm 200 x 140 dal titolo “Pescatore al ponte di Rialto” in cui si nota già la sua grande abilità nel dare spessore e vita alle figure con la luce, un attenta ricerca dei particolari e uno studio accurato della figura. Nella pittura della realtà la luce diventa determinante per dare un valore alla figura. Secondo la natura e la provenienza, la luce fa sembrare diverso l’oggetto illuminato e per questo s’intuisce come sia fondamentale nella comunicazione allo spettatore. Esegue anche un bellissimo dipinto dal titolo “L’orto degli Ulivi”, d’ispirazione storica-religiosa di cui non si conosce l’ubicazione.Nel 1895, dopo la prima Esposizione Biennale internazionale di Venezia, inaugurata il 22 aprile, in cui lo zio Giulio Cesare partecipa con l’opera “Uva e il nido” del 1895, acquistata da un collezionista austriaco e lo zio Eugenio, esponendo “Solitudine” del 1889 e “Prendete!” del 1892, all’età di ventuno anni abbandona Venezia ma, a differenza dello zio Eugenio non si reca a Firenze a perfezionare la propria arte, bensì in Brasile insieme al fratello Rinaldo e agli zii Michelangelo (1865-1915) e Giulio Cesare (1860-1940), a raggiungere il padre Stefano Probo e la madre e gli zii emigrati Leone, Anacleto, anche perché in Sud America ci sono molte possibilità lavorative per gli artisti.A Porto Alegre capitale del Rio Grande del Sud, dove vi rimane per dieci anni fino al 1905, riesce ad avere un incarico d’insegnante in una scuola di pittura e dipinge molti ritratti su commissione. Prati ci ha lasciato un dipinto del 1902 “Studio di pittura” che rappresenta la sua stanza a Porto Alegre, in cui sono raffigurati i suoi generi di pittura, ritratti e paesaggi.Nel 1898 partecipa all’esposizione nazionale di Rio de Janerio con il suo dipinto “Guarda, guarda” che rappresenta un soggetto popolare, ottenendo la medaglia d’oro, il massimo riconoscimento della manifestazione.Nel 1901 espone all’esposizione di Porto Alegre con l’opera “Calzoni vecchi, buchi nuovi” vincendo la medaglia d’argento. Nel 1902 concorre nuovamente all’esposizione nazionale di Rio de Janerio con l’opera “Dolce far niente” ed ottiene nuovamente la medaglia d’oro. Carlo Piovan nel “Trentino” del 1930 ne da un giudizio molto positivo “v’è gran freschezza di toni nelle tinte complementari dello sfondo, e franca luminosità che si rifrange sulle figure dopo essersi diffusa in luci più tenui e più vaghe del paesaggio”.Nel 1903 all’Hotel di Caldonazzo è organizzata una mostra degli artisti Prati: Eugenio, Giulio Cesare, Romualdo e dei giovinetti gemelli Edmondo e Eriberto. Romualdo, pur non essendo presente, espone due opere “Rose” e “Ritratto a carbone”. I lavori esposti sono dovuti in gran parte a Eugenio Prati (“Bacio fatale”, “Dolce peso”, “In su la sera”, “Rosa dell’amore”, “Amor mio”, “Le prime rose a Venezia”, “Piccola vivandiera”, “Uva”, “Ritratti” e “Divino amore”), mentre Giulio espone (“Rose”, “Mattino” e “Tramonto”) e i quattordicenni Edmondo e Eriberto alcuni squisiti bozzetti di creta.Conosce la nobile di origini portoghesi Olga de Carvalho e s’innamora anche se è contrastato dai genitori di lei; la sposa e dal matrimonio nascono Ofelia (1903) e Susanna (1912).Ma è la sua voglia di sperimentare e di apprendere che lo stimola ad abbandonare il Brasile ed a recarsi a Parigi, che gli consente di assorbire nuove tecniche e intraprendere strade e possibilità nuove, tutto questo lo si ritrova nei suoi dipinti dai quali emerge una profonda ricerca spirituale.Nel 1904 manda alla commissione del Salon des Artistes Francais di Parigi una natura morta dal titolo “Grappoli d’uva bianca e nera”, la giuria accetta l’opera, che è esposta l’anno seguente. Il critico d’arte Les Bal del “New Jork Herald” nel 1905 così scrive a proposito di questo quadro “c’est un morceau tout a fait sa voureux et de premier ordre – è un pezzo molto significativo e di primo ordine”. Il Risveglio Italiano scrisse “i frutti del Prati potrebbero venire dagli ubertosi campi fiamminghi, ma da qualunque parte vengano sono i benvenuti perché hanno una vista appetitosa e pantagruelica”.Nel luglio 1904 arriva a Parigi, nello stesso anno in cui Pablo Picasso (1881-1973) si trasferisce a Montmartre e due anni prima dell’arrivo di Amedeo Modigliani che successivamente affitta uno studio in Rue Caulaincourt, non lontano dal Bateau-Lavoir, dove lavora Picasso.S’iscrive all’Accademia di Belle Arti frequentando i corsi dell’eccellente pittore e maestro Ferdinand Humbert, dedicandosi prevalentemente al ritratto ma anche dipingendo alcuni angoli caratteristici della città.Partecipa come allievo anche all’Accademia privata del famoso pittore simbolista francese Eugène Carrière(3)(1849-1906), frequentata anche da Henri Matisse e Andrè Derain, i principali maestri del fauvismo.Finiti i tre anni di accademia apre uno studio, che non lascia mai fino all’estate del 1909 quando decide di passare alcuni mesi a Caldonazzo, e si crea una buona fama, tanto che i migliori nomi della società parigina si fanno fare il ritratto. Esegue su commissione i ritratti del figlio del principe di Lusinge, della contessa di Barbancois, della bambina del barone de Layre, del nipote dell’editore Hachette e di molti altri. Dall’etichetta applicata sul retro di un olio su cartone s’apprende che il materiale per dipingere a Parigi lo acquistava nel negozio “Chauvin” in Rue du Dragon al n. 29-31 nel quartiere latino, nella stessa casa dove nel 1820 visse Victor Hugo.Dipinge “Moulin Rouge”, il famoso locale di Montmatre, che aprì i battenti il 6 ottobre 1889, uno dei luoghi simbolo delle notti di Parigi. Altri artisti vollero ricordare questo locale come Claude Monet che lo dipinse all’interno come una grande sala da ballo tapezzata di specchi e Henri de Toulouse-Lautrec che fu un assiduo frequentatore fino al 1901, anno della sua morte.Altre opere come “Autunno al Bois de Boulogne”, “Interno di cattedrale” rappresentano immagini di forte impatto visivo che denotano l’influenza della ricerca artistica post-impressionista francese.Contemplando i suoi dipinti si è colpiti in maniera diversa da ciò che vi è rappresentato, sia le forme, sia i colori suscitano sentimenti profondi nell’osservatore, ma mai si passa davanti ad una sua tela senza soffermarsi ad ammirare il respiro e i colori dell’anima dell’artista.Dipinge anche interni, con luce soffusa, e figure femminili, sorprese con malizia e grazia e partecipa all’esposizione del Salon del 1906 con l’opera intitolata “Ladronella”.Nell’interno di una cucina rustica, poveramente arredata, mentre una giovane contadinella è tutta intenta a far la calzetta, una ragazzina approfitta della sorella maggiore che le volta le spalle, per allungare furtivamente le mani sopra un piatto di frutta che sta sul tavolo. All’Accademia Carrière conosce l’artista trentino di Barco di Levico Orazio Gaigher (1870-1938), giunto da Londra nel 1906 per studiare ritratto all’accademia con il quale stringe una profonda amicizia. Di quest’anno vi è inoltre una tela di grandi proporzioni dal titolo “Pomeriggio” esposto al “Aux Indépendants” in cui sono raffigurati quattro commensali attorno ad una tavola imbandita sotto un ombrellone a strisce bianche e rosse. Secondo Carlo Piovan “è un dipinto iroso, anti-accademico per allora, ove sembra che il pittore si sfoghi finalmente a rendere in sintesi sommaria le sue impressioni, reagisca dunque contro se stesso e cerchi per un attimo un lampo, una nuova strada”.Anche nel 1907, anno in cui muore a Caldonazzo lo zio Eugenio, concorre all’esposizione del Salon degli artisti con il quadro “Un accidente” che vince il massimo riconoscimento della giuria con la medaglia d’oro. In questa tela si notano sparse al suolo uva e pesche rovesciate da una cariola e venne giudicata bellissima da Iules de Saint Hilaire nel “Jal des Arts” descrivendola “d’une solide peinture, d’une belle lumière et d’un pinceau puissant – una pittura consistente, con una bella luce e d’una pennellata possente”.Nel 1908 sempre al Salon vince la medaglia d’argento con l’opera “Venditrice di frutta”, una giovane ragazza in costume popolare di Caldonazzo, appoggiata al muro esterno della sua bottega con le braccia in conserte che aspetta di vendere delle bellissime pesche e dell’uva bianca, sistemate per terra in due canestri.Vittorio Zippel nel 1911 lo descrive “E’ una figura italiana dagli occhioni scintillanti che colle braccia conserte è appoggiata al pilastro d’una sua botteguccia, dove stanno dei cesti di verdura e di frutti; ai suoi piedi sono altri cestelli di pesche e uva; la donna guarda intenta a ciò che succede sulla via, in attesa di compratori. Qui è ormai la figura, con la sua grazia e con la bellezza del modello, colla vivezza dei colori bene ordinati, coi tocchi larghi e vigorosi, quella che domina la scena, i frutti non rappresentano più che un motivo secondario”.Nel 1910 partecipa nuovamente al Salon con “Dolce far niente”, assieme allo zio Giulio Cesare con la tela “Dittico d’uva”. Questo dipinto, escluso dalla medaglia d’oro per una differenza di soli tre voti nella votazione dei membri della giuria, il Prati lo realizza nell’estate del 1909 durante la sua vacanza a Caldonazzo e rappresenta un idillio campestre con una contadinella (Emilia Gremes) e due ragazzi (i fratelli Toller) scalzi sdraiati sopra un prato in dolce far niente; sullo sfondo il lago sinuoso, il paese di Caldonazzo con il campanile, la Chiesa dell’Assunta di Calceranica, e la cerchia dei monti circostanti il lago. Henri Pellier, descrivendo il dipinto sul giornale “Petite Republique”, rileva che rappresenta “il ritorno al paesaggio vero e che il paesaggio sfumato che si intravede sullo sfondo è d’una nota incantevole e giusta”.Durante le sue vacanze estive a Caldonazzo si dedica prevalentemente alla pittura di paesaggio della Valsugana: “Il monte Pizzo da Vattaro”, “Primavera a Bosentino”, “Il lago di Caldonazzo” e gli scorci caratteristici di case rustiche di Calceranica, Levico, Bosentino e Caldonazzo. Il piacere di essere ritornato nella sua terra natia, e l’amore per le sue origini, lo portano a cogliere con interesse gli angoli particolari del suo paese, i balconi di legno adornati da splendidi fiori, e la “Chiesa dell’Assunta”(4) a Calceranica, le visioni del lago ripreso da innumerevoli angolature, “Il molino Prati a Caldonazzo”, lungo il torrente Centa dove è possibile riscoprire i segni di epoche lontane nel paesaggio scavato dall’acqua tra la roccia delle montagne.Nel 1911 partecipa a maggio al Salon di Parigi con la tela “L’abbeveratorio”, un olio di quasi tre metri, e successivamente all’Esposizione nazionale di Roma dove conosce il famoso pittore trentino Bartolomeo Bezzi (1951-1923) membro della commissione coordinatrice dell’esposizione.Il paesaggio è animato dalla rappresentazione di una contadinella vezzosa, appoggiata al dorso di una mucca presso l’abbeveratorio, in atto di reggersi colle mani e con la testa tutta pensierosa. Sullo sfondo riappare il magnifico lago di Caldonazzo e la Marzola che si perdono in un cielo turchino percorso da nuvole bianche.Estienne Charles su “Libertè” del 2 maggio 1911 “a l’abreuviur de M. Romualdo Prati, ou une jeune paysanne bien en chair se dresse, robuste et souriante près de sa vache”.E’ del 1913 l’opera “Ritorno dal lavoro”, esposta al Salon degli artisti di Parigi nel 1914 e conservata al SAIT di Trento, di grandi dimensioni e di grande fascino in cui traspare la fatica di due contadine con il loro lento procedere, seguite dalla loro pecora, mentre tornano a casa sul calar della sera dopo un’estenuante giornata di lavoro: una con il rastrello sulle spalle e l’altra tenendo stretto nel braccio destro un sacco pieno di fieno. Sullo sfondo il paese di Caldonazzo con il suo campanile e la collina dei Somi in un’affascinante atmosfera di un cielo dalle tonalità contrastanti, ma armoniche con nuvole rosate e turchesi che si scontrano e lasciano filtrare una forte e rassicurante luminosità.Sempre lo stesso anno dipinge il “Ritratto della cugina Bianca Prati” (1892-1918), rea di patriottiche attività, che ci ha trasmesso un diario in cui racconta i dolorosi e travagliati anni della sua segregazione assieme alla famiglia nel Lager di Katzenau dal 1916 al 1917, dove muore la madre Angela Perini il 24 settembre 1916. Bianca all’età di ventisei anni muore per l’influenza “spagnola” a Kematen in Austria il primo novembre 1918, proprio tre giorni prima della fine della guerra quando già vede avvicinarsi il sospirato giorno del ritorno a Caldonazzo.Pur dipingendo ad olio il suo genere favorito è il ritratto a pastello, caduto in disuso dopo la ricca e gloriosa fioritura del cinquecento e del settecento, ma richiamato in auge alla fine dell’ottocento dalle società dei pastellisti di Parigi e Bruxelles. Nella seconda metà dell’ottocento Degas, con l’uso del pastello riesce a ottenere una particolare ricchezza di effetti e li usa anche combinati con l’acquerello. Tra gli artisti contemporanei, Picasso ha usato molto spesso questa tecnica.Il Prati dimostra nei pastelli un’abilità quasi fotografica, dipingendo con straordinaria libertà, con tratti decisi, talvolta lasciando addirittura trasparire il colore della carta; una grande maestria che gli permette di dare rilievo ai toni bassi o alti con la sovrapposizione dei colori ma soprattutto è maestro negli effetti delle mezze luci. E’ del 1913 il pastello(5) che raffigura il “Ritratto di bambina” la cui innocenza, dolcezza e timidezza è resa in modo esemplare e struggente.Nel luglio del 1914 ritorna a Caldonazzo per le vacanze estive e scoppiata la prima guerra mondiale ritiene inopportuno ritornare a Parigi per non essere esposto al pericolo di venire internato in qualche campo di concentramento perché considerato un suddito austriaco e neanche rimanere a Caldonazzo per evitare di essere arruolato nell’esercito austro-ungarico, così nel gennaio del 1915 attraverso la Svizzera si reca in Italia e precisamente a Venezia dove vi rimane alcuni mesi. Successivamente, raggiunto dalla moglie Olga e dalle due figlie si trasferisce a Firenze dove vi soggiorna fino al 1919.Con la prima guerra mondiale ai primi di giugno del 1915, viene distrutto il molino di famiglia a Caldonazzo con una carica di esplosivo dagli austro-ungarici, in quanto nelle immediate vicinanze passa la seconda linea di difesa, e lo zio Giulio Cesare riceve l’ordine perentorio di trasferirsi con tutta la famiglia in Moravia a Slusowice, seguendo le sorti di molti abitanti della Valsugana, mentre lo zio Michelangelo, padre dello scultore Edmondo e del pittore Eriberto, viene ucciso il 13 dicembre durante uno scontro a fuoco dagli austro-ungarici al maso Brocher di Marter in località “Brustoladi”(6).A Firenze dipinge il “Ponte Vecchio” bagnato dall’Arno, diversi paesaggi del fiume toscano e rustici di campagna.Nel 1919, alla fine della prima guerra mondiale e dopo una breve permanenza a Caldonazzo in cui immortala la distruzione del paese nel dipinto “Rovine di Caldonazzo”, raggiunge Roma ed apre uno studio ed una scuola di pittura per stranieri in Via Margutta 33.Vive da solo, perché separato dalla moglie Olga e frequenta il circolo artistico romano la “Società dei XXV” (7) in compagnia del celebre pittore Camillo Innocenti (1871-1961) e dell’antiquario, poeta e scrittore Augusto Jandolo (1873-1952) che aveva il negozio di antiquariato proprio in Via Margutta, dove ora il Comune di Roma lo ha voluto ricordare con una lapide.Camillo Innocenti è stato un pittore noto per le opere dal tratto divisionista, che rappresentano donne nell’intimità domestica, evocate in composizioni liberty-simboliste o in situazioni mondane e per le scene all’aperto con figure in costumi popolari (specialmente abruzzesi e sarde), interpretate con colori tra evanescenti e fauve. Innocenti era sovente recarsi in Abruzzo a Scanno e Roccaraso, affascinato dai quei monti e dai suoi paesaggi e molte volte portò con se Romualdo Prati.Secondo Renato Mammucari, critico d’arte ed esperto conoscitore dei pittori dell’ottocento e novecento romano con particolare attenzione a quelli che furono attratti dalla campagna romana, se non una vera e propria scuola, la Società è stata per lo meno “un vasto movimento pittorico teso alla riscoperta di quelle sensazioni che solo un tramonto romano sa infondere in un artista e che solo ritraendolo dal vero e nella sua vera luce, con le giuste tonalità, chiaroscuri e penombre, si è in grado di trasferirlo sulla tela senza alterarlo o falsarlo, riproducendo non solo un angolo sperduto od un anfratto della Campagna, ma anche e soprattutto l’atmosfera che lo permea”.Diviene amico del pittore goriziano Edoardo Del Neri (1890-1932) con il quale si diletta a tirare di scherma sulla terrazza di Via Margutta e in onore di questi felici e spensierati momenti dipinge “Capitano dei moschettieri”, autoritratto esposto alla Prima mostra d’arte di Trento del 1928, che eseguì in almeno quattro esemplari più o meno grandi: uno è conservato al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, gli altri furono dedicati e regalati alla figlia Ofelia e alla cugina Giulia Prati in occasione di compleanni.Camillo Innocenti lavora tra il 1918 e il 1922 anche come scenografo per il cinema (“Redenzione”, “Cirano”, “I promessi sposi”, “Ben Hur”), disegnando scene e costumi e convince Prati e Del Neri a partecipare come comparse moschettieri al Films “Cirano”. A Roma nel 1922 arriva anche il cugino Angelico Prati (1883-1960), glottologo e dialettologo e figlio del pittore Eugenio che diventa di grande appoggio per Prati.Nella capitale nel 1923, alla seconda esposizione Biennale, incontra i pittori trentini Oddone Tomasi (1884-1929) e Carlo Cainelli (1896-1925) con i quali s’incontra spesso per discutere dei movimenti artistici. Famosi di questo periodo sono il dipinto “Bambina al parco”, che ritrae una bambina gioiosa che gioca e che raccoglie fiori in un’aiuola dei giardini del Pincio con la madre assorta a leggere, “Riposo in giardino” conservato al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, “Fiori rossi nel parco”, studio preparatorio di bambina al parco e “Solitudine nel parco”.Dipinge molti paesaggi della Campagna romana come “I covoni”, “Meriggio in campagna”, “Colline romane” e personaggi popolari in costume tradizionale tra cui “Donna in costume di Scanno”, conservata al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto ed esposta a Trento nel 2002 alla mostra “La montagna nelle collezioni del Mart” e “Ritorno dalla festa nuziale” del 1922 conservata al SAIT di Trento in cui sono raffigurati due giovani sposi di Scanno in Abruzzo che ritornano dopo la festa al loro paese; la ragazza sul dorso di un asino e il ragazzo a piedi che scruta il paese di Scanno sull’appennino abruzzese.A Scanno il costume tradizionale femminile festivo di grande effetto ed apparenza, ancora oggi esistente, è segno di una condizione storica in cui il potere e il prestigio delle donne hanno rappresentato il fondamento della vita sociale. L’acconciatura del capo, detta cappellitto come, nel 1792, chiarisce Michele Torcia nel suo “Saggio itinerario nazionale del Paese dei Peligni” è formata “da un fasciatoio di saia blò (…) tessuto con vari fini ed intrecciati ricami di seta a rose strocche (…), da un violitto, cioè veletto sottile di bambagia, intrecciato con fili di seta di vario colore, e questo ripiegato indietro e pendente a due code”.Sotto il cappellitto le trecce sono raccolte entro la rezzola, una reticella non di rado ornata di monete d’oro. L’origine dei nastri di seta o di lana intrecciati ai capelli, va ricercata all’interno di una moda barocca e spagnoleggiante, diffusasi in tutto il Centro meridione dal Settecento in poi, e tendente ad enfatizzare l’ornamento e il dettaglio.Romualdo Prati esegue anche diversi nudi, plastici e graziosi ma non volgari. Pablo Picasso in merito al nudo nell’arte scrisse “L’arte non è mai casta, si dovrebbe tenerla lontana da tutti i candidi ignoranti. Non dovrebbero mai lasciare che gente impreparata vi si avvicini. Si, l’arte è pericolosa. Se è casta non è arte”.I nudi di Prati appaiono nella loro morbidezza, in movimenti flessuosi e delicati, corpi generosi che ricordano l’ideale femminile di Tiziano e di Rubens in chiave moderna ed esprimono in pieno un’idea di bellezza, di energia fisica e sessuale che non sfocia nello scabroso o nella volgarità ma al contrario mantiene uno stato di purezza.L’artista trentino Dario Wolf (1891-1967) allora ventitreenne, che molto spesso aveva avuto l’opportunità d’incontrare il Prati a Roma, di lui ricorda la simpatia, la cordialità, l’aspetto signorile e il tratto battagliero. Il cugino dott. Carlo Prati ricorda che durante il periodo romano, talvolta in compagnia di alcune sue modelle, torna molto spesso a Caldonazzo a trovare le figlie e lo zio Giulio e in una di queste occasioni dipinge “La cugina Jolanda Prati”(8).A Caldonazzo alle Rive durante l’estate dal 1922 fino al 1928 frequenta la Villa Stella del pittore Oddone Tomasi, progettata proprio dall’amico architetto Wenter Marini, la casa tanto amata per la quale Tomasi aveva disegnato gli splendidi graffiti. In questa villa molto spesso si tengono le riunioni del Circolo artisti Trentini e qui che incontra Giorgio Wenter Marini, Oddone Tomasi, Luigi Bonazza, Luigi Ratini, Stefano Zuech, Arthur Fasal e lo zio Giulio.Nel 1926 in una galleria in Via Condotti, tiene la sua ultima mostra personale.A settembre del 1928 espone a Trento nel Palazzo del Governo alla prima Mostra d’Arte Trentina con sei opere: “Ritorno dal lavoro”, “Capitano dei moschettieri” (autoritratto), “Ritorno dalla festa nuziale”, “Venditrice di frutta”, “Piazza Vittorio Emanuele (a Narin in Umbria)”, “Vecchia fontana”. Carlo Piovan nel “Trentino” di quell’anno così descrive la sua partecipazione “tentativi ottimi di raggiungere la luminosità si notano nella Venditrice di Frutta, e nel Ritorno dalla festa nuziale del Prati, il quale si esprime meglio tuttavia in Ritorno dal lavoro che, se come concezione non è nuovissimo, ha certamente toni adeguati e teneri colori d’effetto assai felici”.Nell’ultimo anno della sua vita Romualdo si trova in difficoltà economiche e molto spesso il cugino Angelico lo porta a pranzo in qualche trattoria romana e lo aiuta finanziariamente.Nell’estate del 1930 ritorna in Trentino a Villa Agnedo in compagnia del cugino Angelico, sofferente ed ammalato ed infatti alcuni mesi dopo muore all’età di 56 anni a Roma il 16 settembre 1930 all’ospedale di Santo Spirito dopo un breve ricovero, mentre si accingeva a recarsi in Brasile per un’esposizione delle sue opere.Ci sembra corretto concludere con la descrizione di Romualdo Prati che ci ha lasciato il critico d’arte Carlo Piovan, sei mesi dopo la sua morte nel numero di marzo del “Trentino” del 1931: “gli ero stato presentato in fretta una sera, mi pare due anni fa, nell’atrio d’un teatro, fra un atto e l’altro. Era vestito – ricordo benissimo – di nero, e aveva una figura alta e snella: sul nero dell’abito si levava il suo volto pallido e più lungo per il pizzo alla moschettiera, si levava la sua testa ormai grigia, ma non doma dall’età che del resto non era neppure un’età avanzata: doveva avere allora cinquantaquattro anni e non ne dimostrava di più. Egli non aveva sul viso però l’espressione dell’audacia e neppure quella del pittore bohèmien; era raccolta nei suoi occhi invece l’espressione di un’intelligenza viva e forse un po’ frenetica, in ogni caso mobilissima: un senso vigile d’attenzione volubile e intensa e un senso di spavalderia anche, più intimo tuttavia che esteriore: più vero che guascone”.Trento, 26 dicembre 2003
Alberto Pattini(1) Il termine fauvismo fu usato per la prima volta dal critico d’arte del “Gil Blass” Louis Vauxcelles, nella recensione al Salon d’Automne del 1905, a proposito di un gruppo di opere, apparse particolarmente audaci sia per la composizione sia per il colore, raggruppate in una sala che egli chiamò “cage aux fauves” (gabbia di belve). Fauves vennero ironicamente definiti i giovani pittori (Henri Matisse, Albert Marquet, André Derain, Maurice de Vlaminck, Kees Van Dongen, Othon Friesz, Raoul Dufy, Georges Braque) che tendevano ad esprimere, per mezzo della mescolanza dei colori puri, principalmente il sentimento dell’artista, di fronte agli spettacoli della natura, considerati come temi da sviluppare e non da imitare.(2) Marie Clementine Valadon è stata modella, allieva, madre e amante di alcuni dei più geniali artisti di tutti i tempi oltre che grande pittrice lei stessa. Fu proprio Toulouse-Lautrec a suggerirle lo pseudonimo di Susanna, pare le abbia detto scherzando: “Tu, che posi nuda per i vecchi, dovresti chiamarti Susanna”. Il più grande estimatore delle sue opere fu Degas che non smise mai di collezionare i disegni della “terribile Marie”, come lui la chiamava. La sua produzione mostra una forte matrice postimpressionista ed è caratterizzata da un disegno sintetico e vigoroso, da una tavolozza prevalentemente chiara e da un’acuta sensibilità per i temi legati alla realtà quotidiana.(3) Il simbolismo è un movimento emerso nella pittura moderna verso il 1890, durante il periodo postimpressionista, come reazione al naturalismo e all’impressionismo. Esso si proponeva di rivestire l’idea di una forma percepibile ai sensi o rappresentare idee astratte (odio, amore, Dio, ecc.) in una forma visibile, concreta. I simbolisti si ispirarono a qualsiasi forma d’arte primitiva, arcaica, esotica, che potesse essere interpretata simbolicamente. Molti pittori postimpressionisti, nel tentativo di superare la rappresentazione dell’oggetto esterno, per sostituirla con l’espressione del proprio io, rifiutarono la pittura come mezzo per rendere l’illusione del vero mediante il modellato e la fedeltà del colore e preferirono trasfigurare la realtà, accentuando quelle linee e quei colori che avevano maggiormente suscitato la loro reazione emotiva. Carrière fu anche il primo presidente del Salon d’Automne di Parigi, mostra che raccoglieva opere di vari artisti e di disparate tendenze, dove nel 1905 fu organizzata la prima mostra del fauvismo.(4) Costruita prima del 1208 e riconsacrata nel 1537, presenta un edificio gotico-rinascimentale, campanile dal basamento romanico, cella campanaria gotica e altare maggiore del XVIII sec.; prezioso organo, opera di Antonio Callido di Venezia.(5) Il pastello viene eseguito con materiale da disegno consistente in bastoncini di pigmenti tenuti insieme da resina o gomma. Si usa in genere su carta e consente una varietà di effetti, da linee nitide a morbide ombreggiature. La natura terrosa del pastello comporta un rapido deterioramento del prodotto finito, se non viene adeguatamente protetto. Il pastello nasce in Italia nel sedicesimo secolo, limitato a soli tre colori: bianco, nero e rosso terracotta. Il suo momento di splendore fu nel diciottesimo secolo, nell’ambito della ritrattistica, e tornò di moda nel diciannovesimo secolo con le opere degli impressionisti.(6) Dopo innumerevoli ricerche del figlio Edmondo la salma di Michelangelo è ritrovata ventuno anni dopo, solo nel febbraio del 1936, sotto le chiome di un gelso presso una casa di un contadino di Barco, usata durante la guerra come comando militare. Nell’aprile del 1936 è organizzata una cerimonia di suffragio a Barco, nel luogo di ritrovamento della salma, con la presenza del figlio Edmondo e dei fratelli Isabella e Giulio ed è posto un cippo sul luogo del sacrificio come anche nel “Croz dell’Agola” sul monte Cimone.(7) Dal 1904 al 1930 si riuniranno, infatti, a Roma i 25 artisti, poeti e pittori, trovatisi uniti dall’attenzione per il paesaggio della Campagna Romana. La “Società dei XXV” riunì gli artisti più noti dell’epoca, Giulio Aristide Sartorio, Enrico Coleman, Duilio Cambellotti, Arturo Noci, Onorato Carlandi, Cesare Biseo, Camillo Innocenti, Giorgio Hinna, Enrico Ortolani, Edoardo Gioja, Giuseppe Raggio, Lorenzo Cecconi, Cesare Pescarella e altri. La Campagna Romana, quel territorio che, in pittura, circonda Roma estendendosi a nord sino a Civitavecchia, il Soratte e la riva destra del Tevere, e a sud sino a Terracina lungo il litorale e nella fascia interna va dai monti Tiburtini ai Lepini e agli Ausoni, appariva agli artisti come la terra della solitudine e del silenzio: paludi, prati con orizzonti segnati dal dolce profilo di colline, ampie distese disabitate punteggiate da ruderi di acquedotti e torri, catene montuose fitte di boschi, di forre inaccessibili, burroni scoscesi. A popolarle erano più bufali e buoi, cavalli, capre e pecore che non gli uomini.

La cugina Jolanda Prati (1902-1997), figlia di Giulio Cesare, ci ha lasciato un diario che racconta le tristi vicende e le disavventure della famiglia dall’esodo al ritorno in patria e cioè dal maggio 1915 al gennaio 1919, pubblicato nel 2003 nel libro “Profughi for per le Austrie ed in Italia”.

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Opere/Fotografie/Documenti

Elenco Opere

Bibliografia

Colaborazioni di Alberto Pattini

Per ricevere o dare informazioni scrivere a.pattini@libero.it

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