Eugenio Prati, pittore di genere e del connubio spirituale tra uomo e natura, primo di quattordici figli, nasce a Caldonazzo in via Case Nuove al n.254, ora via Roma n. 36 (Fig. 1), il 27 gennaio 1842 da Domenico Prati e da Lucia Garbari.
L’albero genealogico della famiglia risale al XIV sec. e fa riferimento al capostipite Giovanni a Pratis, di Cincta (Centa); in seguito i Prati si trasferiscono a Caorso nella piana di Caldonazzo fino al 1758, anno in cui è distrutto per evitare le continue inondazioni del torrente Centa e poi a Caldonazzo in via Case Nuove.
Presso un discendente Prati è conservato un pregevole olio su tela firmato “De Pratis” dal titolo “San Sebastiano” (Fig. 2), databile intorno al XVII sec., a dimostrazione della vena artistica della famiglia.
Il padre Domenico Prati, soprannominato Meneghin, (Fig. 3) nasce a Caldonazzo il 22 settembre 1808, ultimo figlio maschio di Stefano Prati e di Lucia Zamboni. Studia a Trento al ginnasio assieme al barone don Giovanni a Prato di cui diviene amico. Si diploma geometra, diventa costruttore edile ed in particolare costruisce e vende a Caldonazzo molte delle abitazioni site in via Case Nuove. È anche possidente terriero ed agricoltore specialmente nel campo dei bachi da seta e del grano. In località Centa, alla periferia di Caldonazzo, costruisce un molino ad acqua per la produzione della farina che commercia. Edmondo Prati descrive il molino in una lettera inviata da Montevideo al cugino Carlo nel 1969, anno precedente la sua morte: “Il nonno Meneghin (soprannome di Domenico Prati) lo aveva costruito con criterio moderno di quel tempo; aveva al piano terreno il molino completo con tutti i suoi accessori, ed al primo piano, tre grandi stanze, con finestre alte e larghe, con i loro scuretti, un tinello ampio, una piccola sala di entrata e una vasta cucina con fornasella a legna, grande e comoda, con forno grande e buono, e un complemento di mattoni per mettere sotto la legna, un secchiaio e due grandi crassidei di rame stagnati ecc. ecc.”.
Si sposa con Lucia Garbari a Caldonazzo nella chiesa di San Sisto il 22 febbraio 1841 alla presenza dei testimoni di nozze, il dott. Giovanni Battista de Egger e l’avv. Carlo Capolini di Levico. Il matrimonio è celebrato dal fratello maggiore arciprete e parroco di Calceranica don Giacomo Prati (1782-1854).
Domenico commercia anche vino assieme al fratello Stefano e nel gennaio 1859 avvia a Venezia una bottega di vini con gran successo, come ci viene da lui raccontato in una lettera dell’11 gennaio 1859 conservata presso l’Archivio Prati di Ivano Fracena: “…Sabato 8 corrente di sera, dopo allestito in bell’ordine il locale, abbiamo dato luogo all’apertura, ed incominciato a vendere. La concorrenza fu tale da spaventarci, ma restai sorpreso dall’abilità del nostro cameriere Martinelli nel disimpegno del suo servizio; colla nostra assistenza la cosa è andata in ordine. La domenica partimente grande concorso, jeridì non se ne parla, poiché più di cinquecento persone sono entrate in magazzino ed hanno bevuto…”. Muore a Caldonazzo l’11 novembre 1867 lasciando la famiglia in un grave dissesto economico, dovuto al mancato pagamento di una gran partita di vino venduta all’ingrosso a Venezia.
La madre Lucia Garbari (Fig. 4) viene alla luce l’11 giugno 1819 da Giuseppe Garbari di Vezzano e da Lucia de Negri di San Pietro di Calavino. Suo fratello, Gioacchino Garbari, (1824-1888), è noto per il suo patriottismo irredentista e per essere stato sindaco di Caldonazzo per molti anni. Gioacchino, proprietario di una filanda, di molti terreni agricoli e dell’Hotel Caldonazzo, si sposa con Placida Gasperi nel 1862 ed è costretto all’esilio nell’agosto del 1866 durante la terza guerra d’indipendenza per evitare l’arresto dopo la ritirata del gen. Giacomo Medici e delle sue truppe, reo per aver ospitato e festeggiato con gli ufficiali italiani presso il suo hotel ora sede del Kinderdorf.
Il 9 agosto 1866, il giorno prima della ritirata degli Italiani, nasce la figlia Laura Garbari che in seguito il 16 luglio 1896 sposa Leone Prati, fratello di Eugenio ed emigra con il marito in Brasile ad Uruguaiana.
Il nonno paterno di Eugenio, Stefano Prati (Fig. 5), nato il 16 febbraio 1763, sposa dapprima Caterina Tomasi da cui ha il primo figlio don Giacomo Prati e poi, in seconde nozze, Lucia Zamboni che da alla luce otto figli: Giuseppe, Stefano, Domenico e cinque femmine. Si racconta che, divenuto sindaco di Caldonazzo dall’aprile 1797 all’aprile 1798 e Consigliere comunale fino al 1805, sia stato depredato insieme ai membri del Consiglio comunale il 6 settembre 1796, durante la prima invasione napoleonica, delle scarpe e delle calze dai francesi, ai quali era andato incontro al capitello dell’Ulba per un omaggio che avrebbe dovuto invano mitigare le loro intenzioni. Muore all’età di settantasette anni il 6 marzo 1840.
Si narra in famiglia che nel 1801, durante la terza invasione napoleonica del generale Mc Donald, un soldato francese, entrato nella casa Prati di via Roma per rubare, abbia rotto con la baionetta un cassetto di uno dei due cassettoni della sala da pranzo, dove erano custoditi gli ori della famiglia. Si racconta che una sorella di Stefano sia stata amputata di alcune dita per opera del soldato mentre cercava con una mano di impedire l’apertura del cassetto. Si tramanda che l’accaduto sia stato denunciato e che per questo reato il soldato sia stato fucilato. Il cassettone, ancora lesionato, è quello dipinto da Eugenio Prati nel 1880 nell’opera “Abile” in occasione della partenza per il servizio militare del fratello Giulio ed ora si trova a Roma presso un discendente.
Dal matrimonio di Domenico e Lucia Prati nascono quattordici figli, quattro dei quali, Fausto Ignazio (1843-1846), Stefano Ignazio (1846-1846), Carolina (1853-1854) e Melania (1856-1856) muoiono in tenera età, mentre gli altri dieci sono: Eugenio (1842-1907), Maria Luigia (1845-1931), Leone (1847-1922), Isabella (1849-1938), Stefano Probo (1850-1928), Anna Maria (1851-1920), Anacleto (1856-1934), Giuseppe Benedetto (1858-1944), Giulio Cesare (1860-1940), e Michelangelo (1865-1915). Le due sorelle, Luigia (Fig. 6) e Isabella (Fig. 7) sono state molto legate al fratello maggiore Eugenio.
Il penultimo fratello di Eugenio Giulio Cesare (Fig. 8), nato a Caldonazzo in via Case Nuove il 19 dicembre 1860, è stato un valente pittore di genere e di paesaggio. Comincia a dipingere prediligendo il paesaggio agli interni come dimostra la cronologia approssimativa dei suoi dipinti realizzati intorno al 1882 (“Tramonto sul lago”, “Alba sul lago di Caldonazzo”, “Riflessi sul lago”).
A ventiquattro anni nel 1885, su sollecitazione del fratello, s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e segue i vari corsi annuali di Raffaele Casnedi e Ferdinando Brambilla.
Nel 1885 partecipa all’esposizione della Promotrice di Belle Arti di Firenze con due sue opere che sono premiate: “Il fuoco si spegne” del 1883 e “Non so la lezione” del 1885.
Al terzo anno dell’Accademia nel corso di prospettiva vince nel 1887 un premio con medaglia d’argento per l’opera “La chiesa di S.Antonio di Milano” e, grazie a questo premio, riceve una borsa artistica di studio di 500 fiorini della durata di tre anni elargita dalla Giunta Provinciale Tirolese di Innsbruck per continuare gli studi a Milano sotto la guida di Giuseppe Bertini.
Partecipa nel 1891 alla prima Esposizione Triennale di Brera, insieme al fratello Eugenio, con la tela “Tralcio d’uva” ed ottiene encomi speciali. Luigi Chirtani in “L’Illustrazione Italiana” così descrive il dipinto: “L’uva di Giulio Prati, col tordo morto sotto un grappolo nero, par fatta da un olandese, e non è meno disinvolta di quella che ha più indietro il Sottocornola”.
Nel 1893 prende parte a maggio all’Esposizione tirolese di Innsbruck con l’opera “La vendemmiatrice-Autunno” del 1893, acquistata dal Museum Ferdinandeum di Innsbruck e nel 1895 partecipa all’Esposizione Promotrice di Firenze e alla prima Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia insieme al fratello Eugenio con la tela “Uva e il nido”.
Alla fine del 1895 emigra in Brasile e poi in Argentina a Buenos Aires aprendo uno studio a Calle Florida dove da lezioni di pittura e di composizione. Durante la sua permanenza in Argentina partecipa all’Esposizione Internazionale della Colmena Artistica a Buenos Aires nel 1897, conseguendo la medaglia di bronzo e nel 1898 vincendo il primo premio con “Dittico d’uva”.
Nel 1898 ritorna a Caldonazzo per sposarsi il 23 aprile con Maria Antonietta Conci con la quale rientra in Argentina verso la fine del 1898 a Belgrano, città distante dieci chilometri da Mendoza dove inizia a lavorare come professore personale di pittura di don Domingo Tomba, fratello di Antonio, re del vino e possidente di una grande azienda vitivinicola.
Nel 1903 ritorna a Caldonazzo e, costretto dalle difficili condizioni economiche della famiglia e su pressione delle sorelle Luigia e Isabella, s’impegna nella conduzione economica del molino di famiglia che trasforma da artigianale ad industriale, trascurando la sua passione artistica.
Da questo momento Giulio sporadicamente dipinge e torna ad esporre solamente nel 1910 al Salon degli artisti di Parigi con l’opera “Dittico d’uva”. Durante la Prima Guerra Mondiale il 2 giugno 1915 Giulio riceve l’ordine perentorio di abbandonare entro tre giorni la casa-molino e di trasferirsi, con tutta la famiglia, in Moravia a Slusovice, condividendo le sorti di molti abitanti della Valsugana.
Conclusa la guerra, nel gennaio del 1919 nel freddo di un gelido inverno a quasi sessant’anni, ritorna a Caldonazzo dove trova il molino completamente distrutto. La casa viene ricostruita ed inaugurata il 23 aprile 1923, anniversario delle nozze d’argento di Giulio e di Maria. In questi anni si dedica principalmente all’agricoltura pur non tralasciando l’attività artistica, che lo vede impegnato soprattutto nella pittura di nature morte e di paesaggi.
Nel 1924 dipinge “Inverno a Caldonazzo”, splendido quadro raffigurante la piana di Caldonazzo che dal molino Prati porta in paese, imbiancata di neve con le rosee montagne del Pizzo e di Cima Dodici ritratte sapientemente al tramonto, di cui esiste una successiva versione del 1937. Muore nel paese natale, al molino Prati, all’età di ottant’anni, il 25 novembre 1940.
Un altro noto pittore della famiglia Prati è Romualdo Prati (Fig. 9), nipote di Eugenio, nato il 3 febbraio 1874 a Hofgarten presso Salisburgo in Austria da Stefano Probo Prati (1849-1938), fratello di Eugenio e da Natalia Fianick, nativa di Praga.
Romualdo Prati è stato l’unico artista trentino a vivere dieci anni a Parigi nel vivacissimo quartiere latino in pieno periodo della Bella Époque ed è stato anche l’unico, originario della nostra terra, a partecipare per dieci anni al Salon degli artisti di Parigi ed a vincere una medaglia d’oro nel 1907 e due medaglie d’argento.
Dopo un anno la sua famiglia si trasferisce a Caldonazzo, dove trascorre la sua giovinezza con il fratello Rinaldo più giovane di un anno, frequentando gli zii Eugenio e Giulio Cesare.
Nell’autunno del 1890, mentre lo zio Giulio termina i suoi studi all’Accademia di Brera a Milano, su consiglio dello zio Eugenio s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia, seguendo gli studi del maestro Pompeo Molmenti. In questa città si guadagna due premi con medaglia e un diploma nei concorsi banditi dall’Accademia.
Nel 1895 raggiunge il padre Stefano Probo, la madre e gli zii Leone e Anacleto emigrati in Brasile, con la speranza di trovare lavoro dal momento che in Sud America vi sono molte possibilità lavorative per gli artisti.
A Porto Alegre, capitale del Rio Grande del Sud, dove vi rimane per dieci anni, riesce ad avere un incarico d’insegnante in una scuola di pittura e dipinge molti ritratti su commissione.
Nel 1898 partecipa all’esposizione nazionale di Rio de Janerio con il suo dipinto “Guarda, guarda” ottenendo la medaglia d’oro e nel 1901 partecipa all’esposizione di Porto Alegre con l’opera “Calzoni vecchi, buchi nuovi” vincendo la medaglia d’argento. Nel 1902 concorre nuovamente all’esposizione nazionale di Rio de Janerio con l’opera “Dolce far niente” ed ottiene nuovamente la medaglia d’oro. Nello stesso anno conosce e s’innamora della nobile d’origini portoghesi Olga de Carvalho e, nonostante sia osteggiato dai suoi genitori, decide di sposarla e dal matrimonio nascono Ofelia (1903) e Susanna (1912-1998).
Nel luglio 1904 arriva a Parigi e s’iscrive all’Accademia di Belle Arti frequentando i corsi dell’eccellente pittore e maestro Ferdinand Humbert, dedicandosi prevalentemente al ritratto ma anche immortalando alcuni angoli caratteristici della città.
Partecipa come allievo anche all’Accademia privata del famoso pittore simbolista francese Eugène Carrière (1849-1906), frequentata da Henri Matisse e Andrè Derain.
Finiti i tre anni d’Accademia apre uno studio, che non lascia mai fino all’estate del 1909 quando decide di passare alcuni mesi a Caldonazzo, e si crea una tale buona fama, che i migliori nomi della società parigina si rivolgono a lui per farsi fare il ritratto.
Sempre nel 1906 partecipa all’Esposizione nazionale di Milano per l’inaugurazione del valico del Sempione con “Uva” e “Spiaggia del Gualryba – Brasile”.
Anche nel 1907, anno in cui muore a Caldonazzo lo zio Eugenio, concorre all’esposizione del Salon degli artisti francesi con il quadro “Un accidente” ottenendo la medaglia d’oro.
Nel 1908 sempre al Salon vince la medaglia d’argento con l’opera “Venditrice di frutta” e nel 1910 partecipa nuovamente al Salon con “Dolce far niente” dove vince la medaglia d’argento.
Durante le sue vacanze estive a Caldonazzo si dedica prevalentemente alla pittura di paesaggio della Valsugana e ritrae: “Il monte Pizzo da Vattaro”, “Primavera sulle pendici del lago”, “Il lago di Caldonazzo” e gli scorci caratteristici di case rustiche di Calceranica, Levico, Bosentino e Caldonazzo.
Nel 1911 partecipa a maggio al Salon di Parigi con la tela “Abbeveratorio”. Nel luglio del 1914 ritorna a Caldonazzo per le vacanze estive e, scoppiata la Prima Guerra Mondiale, decide, nel gennaio del 1915, di recarsi in Italia e precisamente a Venezia attraverso la Svizzera, dove rimane alcuni mesi. Successivamente, raggiunto dalla moglie Olga e dalle due figlie si trasferisce a Firenze dove soggiorna fino al 1919.
A Firenze dipinge “Ponte Vecchio”, diversi scorci del fiume toscano come “Arno a Firenze” e rustici di campagna.
Nel 1919, dopo una breve permanenza a Caldonazzo in cui immortala la distruzione del paese nel dipinto “Rovine di Caldonazzo”, raggiunge Roma ed apre uno studio ed una scuola di pittura per stranieri in via Margutta 33.
Vive da solo, perché separato dalla moglie Olga e frequenta il circolo artistico romano la “Società dei XXV” in compagnia del celebre pittore Camillo Innocenti e dell’antiquario, poeta e scrittore Augusto Jandolo.
Camillo Innocenti lavora tra il 1918 e il 1922 anche come scenografo per il cinema dei films “Redenzione”, “Cirano”, “I promessi sposi”, “Ben Hur”, disegnando scene e costumi e convince Prati a partecipare come comparsa moschettiere nel film “Cirano”.
Dipinge molti paesaggi della campagna romana come “Covoni”, “Meriggio in campagna”, “Colline romane” e personaggi popolari abruzzesi in costume tradizionale tra cui “Donna in costume di Scanno” e “Ritorno dalla festa nuziale”.
Nel 1926 partecipa alla III biennale d’arte della Venezia tridentina a Bolzano e nello stesso anno, in una galleria in via Condotti a Roma, organizza la sua ultima mostra personale.
Nel 1927 espone alla mostra di Padova istituita dal Sindacato Trentino di Belle Arti e nel 1928 espone a Trento nel Palazzo del Governo alla prima Mostra d’Arte Trentina con sei opere. In estate ritorna in Trentino a Villa Agnedo, sofferente ed ammalato, in compagnia del cugino Angelico; alcuni mesi dopo muore all’età di 56 anni a Roma il 16 settembre 1930 all’ospedale Santo Spirito dopo un breve ricovero, mentre si accingeva a recarsi in Brasile per un’esposizione delle sue opere.
Un altro artista della famiglia è stato lo scultore Edmondo Prati (Fig. 10), nato a Paisandù in Uruguay il 17 aprile 1889 da Michelangelo Prati (1865-1915) e dalla brasiliana Carolina Mattjè (1864-1951), nipote di Eugenio e Giulio Cesare, fratello gemello del pittore Eriberto (Fig. 11) (1889-1970) e fratello del musicista Italo (1899-1982), violinista nell’orchestra di Toscaini alla Scala di Milano (Fig.12). Nel 1891 la famiglia rientra a Caldonazzo ed Edmondo, seguendo gli insegnamenti degli zii Eugenio e Giulio artisti affermati, si avvicina all’arte e s’iscrive con il fratello Eriberto alla scuola d’arte e dell’artigianato di Trento. Nel 1903 partecipa ad una prima mostra all’Hotel Caldonazzo della famiglia Garbari, dove, insieme al fratello gemello, presenta dei bozzetti di creta. Nell’autunno del 1907 a diciotto anni riparte per il Brasile assieme al fratello gemello Eriberto, soggiornando per tre anni ad Uruguayana nella casa del padre, trasferendosi a Salto in Uruguay nel 1910. Nel 1911 assieme al fratello Eriberto costituisce una società di pittura e decorazione “Fratelli Prati” decorando i principali edifici pubblici di Salto come per esempio l’Ateneo e il Palazzo Gallino, ora sede del Museo di Belle Arti di Salto. Sposa Teresita Scanavino (1888-1963) che da alla luce due figli, Mila (1915-1921) e Gabriele (1916-1922). Ritorna in Italia nel 1920 con la moglie Teresita ed i figli per iscriversi all’Accademia di Brera che frequenta fino al 1927, aggiudicandosi ogni anno il primo premio e conseguendo il titolo accademico con il primo premio e la massima lode.
Nel 1925 esegue il busto di bronzo dello zio “Eugenio Prati” che è inaugurato in piazza Municipio il 30 agosto 1925 e due anni dopo, nel 1927, realizza il “Crocifisso” per la cappella del cimitero di Caldonazzo, il busto di bronzo di “Damiano Graziadei”, collocato in largo Graziadei a Caldonazzo e del bis cugino “Lorenzo Prati” (1842-1899), giudice distrettuale a Borgo Valsugana, conservato presso una nipote di quest’ultimo.
Conclusa l’Accademia perfeziona i suoi studi a Milano studiando con i pittori Bignami, Alcide Ernesto Campestrini e con lo scultore Graziosi e poi si trasferisce a Firenze, Roma e visita gran parte dell’Europa per conoscere meglio la scultura dell’epoca.
L’Accademia di Brera gli commissiona l’incarico per l’esecuzione di un busto del “Re Vittorio Emanuele” per il salone dell’Accademia.
Nel 1930 ritorna a Montevideo per poi rientrare in Italia come inviato del Ministero dell’Istruzione in missione ufficiale dal 1931 al 1937. A Montevideo realizza grandi statue di bronzo e rilievi allegorici per i grandi portali del salone dei Passi Perduti del Parlamento uruguaiano e per il Palazzo di Giustizia dal titolo “La battaglia di Las Pedras”.
Nel 1932 scolpisce i busti di bronzo della moglie Teresita dal titolo “Vento del Sud”, conservato a Trento nel Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto presso il Palazzo delle Albere e del prof. “Raffaello Prati”, conservato a Caldonazzo in collezione privata. Nel 1936 partecipa alla XX Biennale di Venezia con l’opera “Gaucho uruguayano” e all’Esposizione universale di Parigi del 1937 vince la medaglia d’argento con l’opera “Quattro esemplari di cavalli di varie razze”. Ritornato in Uruguay nel 1937 partecipa al I Consorso nazionale per il monumento a “Josè Enrique Rodò”, vincendo il primo premio e nello stesso anno ottiene il primo e secondo premio al concorso per il modello della medaglia ufficiale del salone Nazionale delle Belle Arti organizzato dal Ministero dell’Istruzione.
Edmondo Prati nel 1938 vince a Montevideo il Concorso nazionale per il monumento “Ai fondatori della patria”. Nel 1940, per incarico del Municipio della città di Salto, realizza il monumento del “Generale Josè Artigas” e scolpisce un “Crocifisso” di bronzo conservato nella Cattedrale di Salto. A Montevideo, nel dicembre del 1943, vince il concorso per il monumento al “Generale San Martin” che realizza in seguito.
È autore nel 1944 del primo monumento al “Generale Artigas” in Argentina, del busto dello stesso generale nella città di Avana a Cuba (1946) e nelle città argentine di Corrientes (1958) e di Paranà (1959), a Guayaquil in Ecuador ed a San Salvador.
Nel 1950 realizza una lunetta di bronzo “A ricordo delle zie” e nel 1951, in seguito alla morte della madre, il bronzo “Per i miei genitori” entrambi collocati nel cimitero di Caldonazzo.
Nel 1957 è autore della statua di bronzo del “Generale Garibaldi” per la città di Dolores in Uruguay. Opere di Edmondo si trovano nel Museo italiano a Buenos Aires, nel Museo Edmondo ed Eriberto Prati di Salto e nei Musei nazionali dell’Uruguay; al Castello del Buonconsiglio di Trento si possono ammirare tutte le medaglie da lui realizzate e il busto di bronzo di “Cesare Battisti”, nel Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto il busto di bronzo “Vento del Sud” (la cui modella è la moglie Teresita) e nella Biblioteca comunale di Caldonazzo il busto di bronzo di “Michelangelo Buonarroti” (1931).
Oltre a dedicarsi alla produzione artistica scultoria ha svolto i seguenti incarichi: capo conservatore e direttore dell’Ufficio Artistico del palazzo del Parlamento a Montevideo dal 1946 al 1956, professore titolare di disegno e scultura e poi direttore per concorso della Scuola d’arti applicate dell’Università del Lavoro dell’Uruguay; inoltre è stato membro della commissione nazionale uruguaiana di Belle Arti dal 1938 al 1945 e poi a partire dal 1957 fino alla morte. Scompare il 24 novembre 1970 a Montevideo all’età di ottantuno anni e le ceneri, assieme a quelle della moglie e dei due figli, riposano nel cimitero di Caldonazzo.
Un breve accenno alla pittrice della famiglia Ida Prati (Fig. 13), bis nipote e allieva di Eugenio, nata a Borgo Valsugana nel 1885 da Lorenzo Prati (1842-1899), giudice distrettuale a Borgo Valsugana e da Maria Floriani (1860-1941). Internata insieme alla madre a Katzenau nel 1916 perché ritenuta politicamente pericolosa dal momento che aderiva alla Lega Nazionale, dopo la guerra si sposa con il dentista dott. Carlo Lachmann e vive a Trento in piazza Silvio Pellico, dove scompare il 26 febbraio 1929 all’età di quarantaquattro anni. Romualdo Prati ha immortalato entrambi i coniugi Lachmann, Carlo e Ida, in due distinti ritratti ad olio su tela, recentemente apparsi nel 2007 all’asta presso la casa d’asta von Morenberg di Trento. Ida Prati ci ha lasciato dei pregevoli dipinti ad olio come “Madonna addolorata” eseguito a Katzenau il 29 agosto 1916 e regalato alla cugina Pia Prati a consolazione della morte della madre deceduta per malattia in campo di concentramento; ci sono pervenute altre sue opere interessanti come “Pastorella”, “La laguna di Venezia” (Fig. 14), “Angioletto e l’asino”, “Madonna con bambino”, “Uva”, “Ritratto di dama” oltre a numerosi acquerelli.
Tutta la famiglia Prati è stata di fede italiana partecipando attivamente all’irredentismo trentino e finanziando la Lega Nazionale.
La sezione della Lega di Caldonazzo è fondata nel 1903 e rimane attiva fino al luglio 1914, anno della sua soppressione in cui contava 130 sostenitori, e vede tra i suoi iscritti, oltre ad Eugenio Prati, molti membri della famiglia Prati: i fratelli Giulio, Anacleto, Benedetto e Michelangelo, il violinista e medico dott. Vittorio Prati, il cugino Giuseppe Prati (1851-1931) presidente della Lega di Caldonazzo, ex sindaco e proprietario di un gran magazzino all’ingrosso d’alimentari, con la moglie Angelina Perini e le due figlie Pia (segretaria della lega e ritratta in un dipinto ad olio nel 1906 da Eugenio Prati) e Bianca, internate poi con il padre e la madre a Katzenau, il cugino ex sindaco Gustavo Prati che ha inaugurato la stazione della ferrovia di Caldonazzo nell’aprile del 1896, Elia Prati, ex garibaldino con le due figlie Cesira ed Adina anch’esse internate a Katzenau, Clementino, Camillo, Giovanni ed Anita.
Benedetto Prati (1858-1944), musicista e fratello di Eugenio (Fig.15), sposato con Adile Marchesoni, fornaio, tabaccaio, per ben tre volte ha provato ad immigrare in Brasile ma ogni volta ha rinunciato per gelosia della moglie rimasta a Caldonazzo. Dirige l’orchestrina della Lega Nazionale di Caldonazzo dal 1903 al 1914, anno della sua soppressione. Molto spesso l’orchestra partecipa alle serate organizzate per beneficenza come quella del 1908 all’Hotel di Caldonazzo a beneficio delle vittime del terremoto di Messina, o quella del 10 febbraio 1912 sempre all’Hotel di Caldonazzo dove è organizzato un gran ballo riservato solo ai soci e ai famigliari aderenti alla Lega Nazionale con lo scopo di raccogliere denaro per i soldati italiani combattenti per la conquista della Libia e del Dodecaneso.
Il suo primo figlio Benedetto Mario (1888-1976), perito edile e musicista, è stato Presidente della banda di Caldonazzo e Presidente dell’Associazione sportiva del tiro alla fune vincendo il titolo regionale.
Anacleto Prati (1856-1934) anche lui musicista e macellaio, fratello di Eugenio, diviene Presidente della Banda di Caldonazzo dal 1910 fino al 4 luglio 1914, rimanendo nella direzione dopo la guerra per molti anni (Fig.16). Nel 1912 facevano parte della banda come musicisti anche Luigi Prati detto Gigiotti e Renato Prati.
Si vuole inoltre ricordare Michelangelo (1865-1915) (Fig. 17), l’ultimo fratello di Eugenio, musicista e padre dello scultore Edmondo, del pittore Eriberto e del musicista Italo, datosi alla macchia nel giugno del 1915 come partigiano filo-italiano con Emanuele Curzel per non essere internato a Katzenau ed ucciso il 13 dicembre, dopo sette mesi di latitanza. Muore durante lo scontro a fuoco con una compagnia di Landschützen al maso Brocher di Marter in località “Brustolai”, mentre il Curzel riesce a salvarsi.
La loro azione di guerriglia e di sabotaggio è abilmente descritta da Mario Garavelli nel giornale “Il Brennero” del 18 luglio 1934: “Ha inizio una loro spietata guerriglia condotta con accanimento contro le opere militari austriache, guerriglia sorda ed ostinata, forse l’unica nel suo genere, sul fronte trentino.
Cavi telefonici e telegrafici tagliati, centraline di accumulatori distrutte, segnavia sviati, segnali capovolti, opere di rinforzo stradali crollate. Una volta spintisi fino alla fucine di Val Grande si munirono di seghe del ferro e poco dopo iniziarono il taglio dei cavi della teleferica di Monte Rovere, importante organismo per i servizi logistici dell’Altopiano.
Un infernale frastuono rimbombante nella vallata scosse gli abitanti di Caldonazzo e trovò spiegazione nel fatto che i vagoncini non più trattenuti dal cavo aereo, erano piombati nel fondovalle immobilizzando la teleferica per due giorni. La lotta senza quartiere fu condotta per mesi e mesi senza che gli standschützen riuscissero a por mano sugli audaci che imperterriti continuavano le loro gesta”.
Dopo innumerevoli ricerche effettuate dal figlio Edmondo, la salma di Michelangelo è ritrovata ventuno anni dopo, solo il 4 febbraio 1936, sotto le chiome di un gelso presso una casa di un contadino di Barco, sfruttata durante la guerra come comando militare. Nell’aprile del 1936 viene organizzata una cerimonia di suffragio a Barco, nel luogo di ritrovamento della salma, con la presenza del figlio Edmondo e dei fratelli Isabella e Giulio; viene posto un cippo sul luogo del sacrificio come anche nel “Croz dell’Agola” sul monte Cimone.
Anche i figli di Eugenio, Angelico e Guido, sono stati dei personaggi che hanno eccelso nella cultura come scrittore il primo e come disegnatore il secondo.
Angelico Prati (Fig. 18), secondo figlio di Eugenio, glottologo e dialettologo, nasce ad Agnedo il 3 maggio 1883. Compiuti gli studi elementari e ginnasiali a Trento e nel collegio salesiano Manfredini di Este, ha studiato per qualche mese presso l’Università di Friburgo. Prima dello scoppio della guerra 1914-18 è stato professore ad Orvieto ed in seguito a Modena. Avuta la libera docenza in glottologia con una brillantissima laurea, è stato professore della materia all’Università di Pisa.
Il suo nome era conosciuto come esperto nelle maggiori Università europee ed americane, come lo testimoniano i numerosi messaggi pervenuti alla famiglia in occasione della sua scomparsa.
Nell’ultimo periodo della sua vita ha vissuto a Velletri dove aveva acquistato anche una casa. Ammalato, le nipoti Sandrina e Tosca hanno voluto riportarlo in Trentino ma durante il viaggio in treno muore, il 31 gennaio 1960 ed ora riposa nella tomba di famiglia nel piccolo cimitero di Agnedo.
Numerose sono state le sue pubblicazioni, riportate sul libro di Antonio Zanetel dal titolo “Dizionario biografico di uomini del Trentino sud-orientale” del 1978.
Guido Prati (Fig. 19), ultimo figlio di Eugenio nasce ad Agnedo l’8 novembre 1884 e muore il 31 luglio 1967 nel suo paese natale.
Ultimati gli studi superiori a Trento, prende parte come ufficiale volontario degli Alpini alla guerra 1914-18. Ritornato dalla guerra s’unisce ad una tribù zingara condividendone la vita libera e vagabonda.
È stato espertissimo suonatore di chitarra classica con la quale era solito dilettare i suoi compaesani nella piccola osteria di Agnedo ed anche un ottimo disegnatore e membro dell’Accademia di Vienna. Con Italo Cinti illustra il libro del fratello Angelico “Folclore Trentino per le persone colte e per le scuole medie” del 1925. Con il fratello Angelico collabora poi nella stesura di “Voci di gerganti, vagabondi, etc.” del 1940, mettendo a frutto le osservazioni raccolte durante il periodo gitano. Presso collezionisti privati sono conservati numerosi disegni a china di pregevole fattura come “Veduta di Borgo Valsugana”, “Castel Ivano”, “La torre di Marter”, “Incendio durante la ritirata degli italiani nel 1916”, tutti firmati per esteso e in corsivo “Guido Prati” ed oli su tela raffiguranti paesaggi di montagna e nature morte o figure come “Signora con bambino nel parco”.
Si è anche dilettato a scrivere poesie ed una sua poesia a noi pervenuta che celebra le lodi del “Valtinello”, il vino delle colline di Fracena, che anticamente era consumato alla corte di Vienna, è pubblicata in “Poesie dialettali Valsuganotte” del 1969.
EUGENIO PRATI
POETA DELLA SPIRITUALITÀ E DELLE EMOZIONI
Il pittore Tullio Garbari nel 1927 nel catalogo della mostra di Prati a Milano presso la galleria l’Esame ritiene di poter iscrivere Eugenio Prati assieme a Giovanni Segantini e Bartolomeo Bezzi nella triade dei trentini più noti nel panorama pittorico dello scorso secolo.
È impossibile staccare il Trentino da Eugenio Prati: qui egli ha trovato tutti gli spunti e le ragioni della sua pittura; ma è soprattutto nell’aver amato così profondamente la sua terra, ch’egli si è salvato nel tempo come ogni autentico artista. Non avrebbe mai potuto dedicare al suo Trentino un’arte che non fosse viva e pura. Per questo dobbiamo ricordarlo e onorarlo degnamente”, così finisce il suo saggio il pittore trentino Gino Pancheri nel 1942 nel centenario della nascita di Eugenio Prati.
I suoi dipinti sono d’elevato interesse pittorico, perché espressione di un’arte legata alla realtà quotidiana, al mondo rurale, contraddistinta da un inconfondibile stile personale che possiamo definire poetico e spirituale, poiché è rivolto alla ricerca della calda e rassicurante atmosfera del Trentino, ma anche di valore storico, poiché testimonianze d’usi, costumi e di luoghi ormai scomparsi della nostra provincia.
La sua singolare pittura piena d’entusiasmo per la vita riflette i movimenti contemporanei dell’arte ottocentesca interpretati in chiave lirica e spirituale. Eugenio Prati partecipa al realismo veneto assieme ai suoi compagni di studio dell’Accademia Giacomo Favretto, Guglielmo Ciardi, Luigi Nono e apprende gli influssi, soprattutto nei colori tenui e caldi, dei macchiaioli toscani Giovanni Fattori, Telemaco Signorini e Silvestro Lega che conosce nei tredici anni trascorsi a Firenze; viene ispirato dalla pittura dei fratelli Induno e della scapigliatura milanese di Tranquillo Cremona, compagno di studi a Venezia e di Daniele Ranzoni, riuscendo a liberarsi da queste molteplici influenze ed a individuare un linguaggio pittorico personale che conquista molto il pubblico e la critica dell’epoca proprio per la sua originalità nella varietà d’ispirazioni che raccoglie e che poi rinnova.
La sua notorietà è diffusa in tutta Italia grazie all’assidua presenza alle più importanti mostre nazionali di Venezia, Milano, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Roma, Como, Verona, Gorizia, Trento e Palermo. Ottiene notevoli apprezzamenti e riconoscimenti anche alle esposizioni internazionali di Berlino, Monaco di Baviera, Chicago, Londra, Nizza, Parigi, San Pietroburgo e Vienna.
I migliori critici dell’arte a livello italiano di fine ottocento da Luigi Chirtani a Fontana, da Silvio Domenico Paoletti a Victore Grubicy gli riservano notevoli apprezzamenti e lo giudicano tra i migliori protagonisti dell’arte contemporanea italiana (in seguito nel testo saranno riportati i loro giudizi critici).
La critica d’arte Elisabetta Rizzioli in “Il Trentino” del 29 giugno 2002 nella recensione dell’Esposizione di Trento a Palazzo Geremia dal titolo “La magia e la poesia del Trentino nella pittura di Eugenio Prati” ritiene che Prati sia abilmente in grado di documentare: “L’intima arcadia di poetiche atmosfere trentine, il mistero della loro sacralità, paesaggi, frutta, fiori e vita quotidiana di paesani, contadini, pastori ritratti nella loro ombratile luce più propria, riverberati nel corpo stesso degli oggetti, ripensati attraverso un filtro di contemporaneità che spinge il pittore a cogliervi impressi i segni di un presente che non va vagheggiato intellettualisticamente, ma rilevato nella sua attualità e presenza nel tessuto stesso della campagna, nei corpi e nei volti dei trentini più veri e plebei, nelle loro case semplici e spoglie, e infine nell’avvicendarsi di impressioni stagionali – solari e felici o trascoloranti di ombra, nebbia e malinconia-, stati d’animo, ricordi di amori e abbandoni”.
Uomo sereno, Eugenio Prati ha saputo ritrarre con spontaneità e brio la dura vita di campagna del tempo cogliendo gli stati d’animo, gli aspetti piacevoli e dolorosi della realtà. Nelle sue opere immortala i monti e i boschi della Valsugana e del Trentino, il lago di Caldonazzo, la laguna di Venezia, il territorio di Ala e la gente comune della nostra terra, stabilisce un continuo colloquio con la natura e lo spirito libero che lo contraddistingue lo porta ad un’espressione artistica che difficilmente possiamo circoscrivere ad una particolare scuola.
Chi meglio del suo amico pittore veneziano Silvio Paoletti dalle colonne del giornale “Alto Adige” nel luglio 1908 può descrivere il suo amore per la sua terra e il suo lago: “Lo si vedeva tante volte mentre gli altri andavano discorrendo di cose mondane che poco a lui importavano, fermarsi a guardare i paesaggi e descriverli con tanta vaghezza di frasi e di pensieri che egli pareva un vero poeta. E a qualunque forestiero che andava a cercare Eugenio Prati nella sua villetta modesta in Caldonazzo, non mostrava tanto volentieri i suoi quadri quanto il bel lago, le colline, le alte montagne alpine”.
Eugenio non ama impiegare colori vivaci ed intensi, ma preferisce tonalità delicate e tenui degli indachi, dei rosa, degli ocra al fine di inserire la figura umana nell’ambiente circostante creando una splendida armonia tra uomo e natura.
I colori rarefatti ed evanescenti vengono da lui sovrapposti esaltando così la luminosità del quadro e conferendo un’atmosfera mistica quasi a rilevazione della presenza di Dio.
Dai dipinti di Prati traspare la fatica del duro lavoro giornaliero e la serena accettazione del proprio umile destino ma anche la profonda comunione con la natura le cui bellezze sono esaltate dal pennello dell’artista che le ritrae di solito in momenti cromaticamente suggestivi quali tramonti ed albe.
È in queste fasi della giornata in cui la luce del giorno non è nitida, ma è più delicata e tenue che i contorni di cose e persone si fanno meno marcati e la fusione figura-paesaggio è ancora più intensa.
Eugenio Prati è anche pittore della maternità e della femminilità. La figura femminile raramente posta in secondo piano nel quadro, è una presenza ricorrente e predominante nella produzione pratiana.
Nel testo critico di presentazione del Calendario 2003, curato dallo scrivente ed edito dalla Cassa Rurale di Trento dal titolo “La donna nell’arte di Eugenio Prati” si segnala: “I suoi quadri parlano d’eleganza, purezza e bellezza, di sentimenti forti e delicati che popolano l’universo femminile. Sapienti pennellate descrivono con eloquenze intense e contrastanti emozioni, atteggiamenti protettivi e responsabili verso i figli e la famiglia, ma anche fragilità e debolezze del cuore, le confidenze, le attese e le speranze, la disperazione per un abbandono e la gelosia per un tradimento. Sensazioni che sono la linfa vitale della realtà umana, a volte camuffate, contraffatte, nascoste per pudore, per vergogna, per paura e che Prati svela con estrema semplicità osservando le persone e leggendone il linguaggio del corpo”.
Anche quando l’artista s’avvicina e tratta temi religiosi, non segue i canoni dell’iconografia classica ma umanizza i personaggi rendendoli il più possibile vicini al popolo umile della sua terra. Umanizza il divino e all’epoca per questo subisce anche critiche per il suo distacco dai canoni classici dell’arte religiosa.
La Madonna ha le sembianze delle sue modelle, Dosolina ed Elodia Ciola, della gente comune, Gesù del suo ultimo figlio Guido. Ma sono i paesaggi con le figure come “Saluto a Dio”, “Riflessi lunari sul lago”, “Suono dell’Angelus”, “Amor mio”, “Ave Maria”, “Madonna dell’uva”, Agnellino smarrito”, “Fuga”, “Poesia della montagna”, “Consumatum est”, “Le due madri” che ci trasmettono come la sua spiritualità è insita nella natura stessa, nei boschi, nell’acqua, nei prati, nella purezza dei suoi agnellini. Prati in questo si allontana dagli artisti contemporanei, diventando innovatore e ci lascia un Trentino puro dove la natura è un mezzo per avvicinarsi alla grandezza del creato, la speranza e la tranquillità interiore. Prati in Trentino ci ha lasciato una cospicua produzione artistica religiosa: “Pala di San Adalberto”, 1873, Cappella di Villa Bernardelli, Gocciadoro di Trento, ora in deposito temporaneo presso il Castello del Buonconsiglio, “Pala dell’Immacolata”, 1874, Aula magna del Seminario Maggiore di Trento, “Pala dell’Immacolata”, 1875, Chiesa Arcipetrale di Strigno, che fu ritagliata da ignoti durante la ritirata austriaca del 1918, “San Vigilio”, (1874), scomparso il 13 maggio 1944 durante il bombardamento del Seminario minore di Trento, “San Antonio da Padova”, 1875, Chiesa parrocchiale di Lasino, “San Giuseppe”, 1878, Chiesa parrocchiale di Villa Lagarina, “Cristo morto”, 1881, Monastero delle Clarisse di Borgo Valsugana, “Addolorata”, 1885, Chiesa dei Ronchi in Valsugana, scomparso durante la Prima Guerra Mondiale, “San Luigi”, 1891, Chiesa Arcipetrale di Pergine in deposito presso il Museo Diocesano Tridentino, “Pala dei S.S. Cosma e Damiano”, (1894), Chiesa parrocchiale della Vela di Trento, “Presepio o Natività” (1898), Chiesa San Sisto di Caldonazzo, “Fuga in Egitto”, (1898), Chiesa San Giovanni di Ala, “Pala del Sacro Cuore di Gesù”, (1901), Chiesa parrocchiale di Sopramonte.
Il pittore trentino Gino Pancheri (1905-1943) negli articoli apparsi su “Il Brennero” nel 1942 in occasione del centenario della nascita di Prati osserva con acutezza: “Come il Prati indugi sugli accenti, i trapassi, le notazioni di forma, affini le particelle, le variazioni tonali, s’insinui in ogni crepa, frughi ogni stesura con una sensibilità che è come un fascio di raggi solari attraverso una camera buia: le minuzie della impalpabile polvere vi si rivelano dentro e s’illuminano nel riverbero come se fosse oro”.
Il pittore futurista trentino Umberto Maganzini (1894-1965) nel 1956 commentando la monografia su Prati di Maroni e Wenter precisa: “L’ho scorsa apprezzando l’amorosa passione con cui il Prati ha guardato alla vita semplice ed umile. Ho notato le preziosità degli impasti, il senso vivo del colore che hanno richiami del caldo pitturare dei macchiaioli”.
Prati è amante della letteratura poetica italiana, in particolare nutre un vero culto per Dante (Fig. 21) e si compiace spesso, conversando, di citazioni del divino poeta. È amante parimenti della musica, suona la chitarra, il pianoforte e la cetra ed a Trento è un assiduo frequentatore dei concerti della Filarmonica e del Teatro Sociale. Compone anche un Sioredio assieme al musicista Raffaello Lazzari. Conosce nel 1882-83 il compositore Richard Wagner. Intrattiene un’amicizia con Giacomo Puccini e Tito Ricordi che conosce alla terme di Levico durante i loro soggiorni termali.
EUGENIO PRATI NEL PRIMO PERIODO
ACCADEMICO A VENEZIA ED A FIRENZE
Eugenio (Fig. 22) nel 1856, anno in cui s’iscrive anche il famoso impressionista Federico Zandomeneghi, all’età di quattordici anni, si trasferisce a Venezia, culla dell’arte rinascimentale, per frequentare i corsi di pittura dell’Accademia di Belle Arti, sollecitato dall’Ispettore scolastico e decano di Levico Mons. Domenico Caproni che aveva notato la sua bravura nel disegno nelle lezioni scolastiche.
È allievo del ritrattista Michelangelo Grigoletti (1801-1870) titolare della cattedra di figura, del classicista Pompeo Molmenti (1819-1894) titolare della cattedra di elementi di figura e del pittore austriaco Karl von Blaas (1815-1894) titolare della cattedra di pittura.
Grigoletti è stato un importante ritrattista nell’800; i suoi ritratti sono dei veri capolavori d’indagine psicologica e di sensibilità umana. L’artista ama soffermarsi sullo sguardo e lo sfondo neutro fa sì che l’attenzione dell’osservatore si concentri sul volto ritratto.
Apprende le regole accademiche dai suoi maestri e le applica con successo ai lavori scolastici vincendo sei medaglie d’argento e due di bronzo agli annuali concorsi dell’Accademia. Suoi compagni di studio sono Tranquillo Cremona (1837-1878) il maggior esponente della scapigliatura milanese, Guglielmo Ciardi (1842-1917), Federico Zandomeneghi (1841-1917), Tranquillo Tagliapietra ed in seguito Giacomo Favretto (1849-1887) e Luigi Nono (1850-1918), i maestri della pittura dell’ottocento veneziano. Durante l’Accademia il padre Domenico lo segue con premura dandogli anche dei consigli: “Nei tuoi lavori mi sembra, che dovresti molto impegnarti a contornare, ed ombreggiare a mezza macchia, e ciò soprattutto negli elementi di figura; giacché presentemente interessa di adestrarti la mano al disegno, e dare il segno del contorno con precisione e delicatezza. Sappi che ho comperato il Vasari, che ora posso anch’io dare qualche precetto” (lettera del 7 aprile 1858, archivio Prati).
Il 19 novembre 1859 Domenico Prati scrive al figlio una lettera, conservata presso l’Archivio Prati: “Ho provato la consolazione di vedere i tuoi lavori all’esposizione dell’Accademia e premiati della medaglia d’argento tanto in ornato che in figura. Questo tuo profitto è il miglior compenso che tu possa dare ai genitori per le cure, premure e spese che devono incontrare nella buona educazione dei figli. Guardati di non insuperbire per questi primi buoni risultati nella difficile carriera che hai intrapresa, giacché puoi immaginarti quanto ti resta a fare per riuscire artista di buon nome, ma ti servano solo di incoraggiamento per progredire con alacrità e superare le immense difficoltà dello studio. Chiudi le orecchie alle lodi e alle adulazioni e con proprietà ringrazia coloro che si congratuleranno dei tuoi premi”.
Del periodo dell’Accademia a Venezia disponiamo di due suoi “Autoritratti” entrambi olio su tela, uno del 1860 conservato presso la famiglia e l’altro del 1863 presso la Biblioteca Comunale di Caldonazzo, un disegno a carboncino-acquerello, inedito, dal titolo “Testa di Arabo” (Fig. 23) del 1860, un acquerello “Veneziana sul Canal Grande” del 1860 circa, i ritratti ad olio inediti di “Cristiano Chiesa” del 1861 e del figlio “Giuseppe Chiesa” del 1864, il ritratto a matita di “Elia Prati” del 1862 ed infine la matita su carta “Tintoretto scaccia Mario”.
Prati con “Veneziana sul Canal Grande” (Fig. 24) esegue il suo primo dipinto dal vero, molto importante nella sua carriera. Una donna, in primo piano seduta su una sedia, con la testa reclina verso il basso, impegnata nelle mansioni quotidiane mentre due colombi davanti a lei completano la scena in un grazioso giardino interno con numerose piante fiorite in vaso, con pavimento di cotto, dove giace un ombrello ed una giacca. Sulla sinistra dipinge il Canal Grande, dove un veneziano conduce la propria gondola davanti alla basilica di San Marco nella laguna dalle acque lisce, mosse solamente dal passaggio della barca. I colori molto caldi, lievi e sfumati preludono al suo inconfondibile stile che lo caratterizzerà nella sua pittura futura.
Nel 1861 esegue il suo primo ritratto ad olio “Cristiano Chiesa”, (Fig.25) influente personaggio di Caldonazzo, possidente terriero, commerciante ed amico del padre. Si nota già all’età di diciannove anni la gran bravura di Prati come ritrattista, appresa dal maestro Michelangelo Grigoletti di Venezia.
Due anni dopo dipinge il ritratto a matita su carta di “Elia Prati” del 18 settembre 1862, bis cugino di Eugenio ed ex Garibaldino, uno dei due testimoni delle nozze fra lo zio Gioacchino Garbari e Placida Gasperi. Sotto il ritratto di Elia è inserita una quartina inneggiante alla patria gentile italiana e alla libertà: “Viva lo sposo viva la sposa – Tutta la prole che nascerà – Viva il consesso, la generosa Patria gentile, la libertà”, pubblicato sulla copertina di “Studi Trentini di Scienze Storiche” nel terzo volume del 2002 e nel libro “Eugenio, Giulio e Romualdo Prati – Artisti di Caldonazzo” del 2007.
Elia Prati detto “Stefenòl” nasce a Caldonazzo il 24 gennaio 1828 e, sposato in terze nozze con Maria Graziadei, padre di Cesira, Idina (commesse nella farmacia Graziadei di Caldonazzo, irredentiste ed internate a Katzenau) e Ciro, farmacista prima a Caldonazzo e poi a Padergnone, muore il 28 aprile 1916. Di lui si racconta che non uscisse mai di casa senza il suo cappello da garibaldino, il che era motivo di scandalo tra gli asburgici del paese. Si narra inoltre che, assieme al cugino Gioacchino Garbari, fratello della madre di Eugenio, sindaco per molti anni di Caldonazzo e possidente di una filanda, dell’Hotel Caldonazzo e di numerosi terreni, si fosse fatto crescere la barba alla Vittorio Emanuele II e nonostante fosse stato obbligato dagli austro-ungarici a tagliarla, noncurante del divieto ricevuto, ben presto se la fosse fatta ricrescere.
Il pittore trentino Tullio Garbari nel 1927 nel catalogo della “Galleria L’Esame” scrive: “Il Prati crebbe in questa atmosfera calda d’affetti familiari e patriottici, dove questi aggettivi avevano un significato così integro e paesano. Patriotta significava un nome ben radicato e un buon paesano non poteva non sentirsi, assiomaticamente, unitario; senza iattanze e viltà, verso nessuno, né di dentro né di fuori. Idea umana ed integra che i nostri vecchi portarono avanti quanto poterono. Ed egli seppe darne una dimostrazione non retorica mostrando quel dovere proprio d’un artista; facendo dei buoni quadri, lontani da qualunque volgare esibizione di cosidetto patriottismo”.
Durante la sua permanenza a Venezia intorno al 1858-59 conosce il pittore ritrattista Antonio Zona (1814 – 1892), illustre accademico, che esegue nel 1859 un suo ritratto ad acquerello (Fig. 26) e quello del padre Domenico (Fig. 3), firmati entrambi “A. Zona 1859 dip.” e conservati presso i discendenti; inoltre stringe una profonda amicizia con il pittore veneziano Antonio Ermolao Paoletti (1834-1912). Presso la famiglia sono conservati due disegni a matita di Antonio Paoletti realizzati nel 1861 a Caldonazzo durante un suo soggiorno al molino in cui si nota la sorella Luigia che imbocca il fratello Giulio Cesare seduto su uno sgabello e nell’altro Eugenio Prati seduto su una sedia e poi appisolato sul tavolo della cucina.
Nel 1865, ultimo anno dell’Accademia di Venezia, è premiato con la medaglia d’argento per il disegno a matita “Tintoretto che scaccia Mario” (Fig. 27) esposto nel marzo 1866 nella sala di lettura della Biblioteca Civica di Trento e nel 1907 alla mostra postuma ed ora di proprietà del Comune di Trento in deposito presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.
Il 31 marzo 1866 “Il Patriotta” di Trento pubblica un articolo riguardante il quadro “Tintoretto che scaccia Mario” di Eugenio Prati: “Da parecchi giorni trovasi esposto nella Sala di lettura della civica biblioteca un quadro di qualche dimensione di genere storico, rappresentante una scena nello studio del Tintoretto.
Campeggia sul davanti l’illustre pittore veneto nel vigor degli anni, di persona ben distesa, maestoso in volto, quantunque l’aspetto sia severo, risentito, colla destra protesa e vibrate le pupille verso un giovanotto, che titubante sulla soglia mostra scolparsi d’un fallo prima d’abbandonare la stanza. A manca del Tintoretto vedi una fanciulla fiorente di grazia e d’avvenenza, col capo mollemente chino, che volge un furtivo sguardo al perduto amante.
Alla vista delle varie commozioni che animano la scena, tosto un vivo desiderio ti punge di scoprire la causa di quel turbamento, sicché ora interroghi la fronte autorevole del padre, ora compassioni la figlia sorpresa, amareggiata da un amore ardente quanto infelice; ora esplori il volto dello sgraziato allievo, che pur getta un ultimo sguardo supplichevole verso chi lo discaccia.
Tale è il quadro; e chi sa leggere in quel cartone presto si accorge, come l’autore abbia studiato l’intimo del cuore umano, sempre efficace ispiratore delle arti.
Chi poi voglia considerare il merito artistico ammira la diligenza e il corretto disegno che vie più fanno spiccare la composizione. Lo studio del Tintoretto è semplice, non disadorno; libera e viva circola la luce; le figure si presentano innanzi staccate dal fondo; spontanee e ben atteggiate le mosse, sicché la diresti una scena teatrale; non manca il buon gusto nelle cose accessorie, nel morbido giro delle vesti piegate o cascanti, nell’abbigliamento pittoresco, nella finitezza delle parti e nella concordia del tutto”.
Un ruolo caratteristico nella formazione del pittore Eugenio lo ha il barone don Giovanni a Prato (1812-1883), vicino fin dalla giovinezza al padre Domenico, definito “mio vecchio amico e condiscepolo” in una lettera del 15 settembre 1867 nella quale l’abate ricorda: “Tuo padre ed io avevamo percorso insieme tutto il ginnasio e fummo sempre nei migliori rapporti d’amicizia dappoi”.
Proprio in nome di questi rapporti d’amicizia s’impegna il 12 marzo 1866 nella raccolta di fondi in modo tale da assicurare ad Eugenio un sussidio annuo di 1200 franchi per tre anni, pagabili in cento franchi al mese, per la continuazione degli studi a Firenze, perché il padre Domenico, colpito da gravi dissesti economici e con numerosi figli a carico, non è in grado di sostenere le spese per mantenere Eugenio a Firenze.
Il contratto prevedeva che il Prati dovesse consegnare alla società e al bibliotecario della Biblioteca di Trento entro l’1 aprile 1870 un quadro rappresentante un fatto di storia patria, di dimensioni non inferiore ad un metro di altezza e lunghezza, che dovesse essere esposto fino alla fine di giugno per poi essere attribuito ad un azionista estratto a sorte.
Nell’aprile del 1866, dopo aver soggiornato alcuni giorni a Milano, si reca quindi a Firenze, all’età di 24 anni, con varie lettere di presentazione dei professori dell’Accademia di Venezia tra cui quella di Karl Blass e del pittore veneziano Antonio Zona (all’epoca a Milano), per il pittore fiorentino Stefano Ussi (1832-1901), insegnante all’Accademia di Firenze dal 1860, artista noto e stimato per i suoi dipinti storici.
Si presenta contemporaneamente per intercessione del barone Don Giovanni a Prato a Francesco Gentili, direttore dell’agenzia delle Assicurazioni Generali di Firenze, il quale si fa carico di seguirlo durante tutto il suo soggiorno fino al 1879, anno in cui il 26 maggio si sposa e torna a vivere in Valsugana, ad Agnedo, il paese della moglie Ersilia Vasselai.
Francesco Gentili lo presenta dapprima al poeta Aleardo Aleardi, insegnante d’estetica all’Accademia di Firenze (Prati in una sua lettera manifesta la sua gioia per l’evento e si rallegra dell’impegno assunto dall’Aleardi ad istruirlo nell’arte e nella storia). Subito dopo lo fa conoscere al pittore ticinese Antonio Ciseri (1821-1891), esponente di rilievo del tardo purismo toscano e legato a temi religiosi, che lo accetta nella sua rinomata scuola privata di nudo, sita in via delle Belle Donne n. 8, dove studia anche il pittore trentino conte Giovanni Pietro Pompeati (1835-1903), compagno di studi anche all’Accademia di Venezia.
Ciseri è stato molto importante per la crescita artistica di Eugenio, seguendolo con amorevolezza come un padre al punto di volerlo immortalare come modello di San Giovanni nel suo dipinto “Trasporto di Cristo al Sepolcro” (1869-71), considerato uno dei suoi capolavori e conservato presso il Santuario della Madonna del Sasso a Locarno in Svizzera (Fig. 28).
Nel maggio si reca dal trentino Andrea Maffei, poeta ed illustre esponente del mondo letterario, in quel momento a Firenze, con una lettera del barone Giovanni a Prato che gli vale da raccomandazione al presidente dell’Accademia di Belle Arti.
Di Andrea Maffei Eugenio scrive a Giovanni a Prato il 21 settembre 1866: “Non può immaginarsi qual contento provai sentendo quel modo di parlare così virtuoso istruttivo, beato chi possiede quelle belle doti, dico il vero che la sua angelica fisionomia mi ha fatto un’impressione così dolce da non potermi mai allontanare”.
Nello stesso periodo fa la conoscenza con il bibliotecario Giuseppe Canestrini, con lo scultore Enrico Pazzi e con il poeta Giovanni Prati, definito da Giosuè Carducci “…il solo veramente e riccamente poeta della seconda generazione dei romantici in Italia”, trasferitosi da Torino a Firenze quando nel 1865 diventa capitale.
L’ammirazione per il poeta Giovanni Prati appare in una lettera del 13 novembre 1866 inviata al barone Giovanni a Prato in cui Eugenio riferisce del banchetto tenutosi in casa di Francesco Gentili per festeggiare l’annessione del Veneto al Regno d’Italia: “Alla fine poi il celebre poeta declamarono diverse strofe di suoi recenti versi, lì eseguì con tal maestria che fece meravigliare tutti. Sfido io ha una così bella e melodiosa voce che fa innamorare e incantare, poi fece un gentile presente a tutti d’un fascicolo delle sue poesie intitolato Entrata a Venezia inno al Re”.
A Firenze prende in affitto una camera dapprima al II piano di via Ghibellina n. 102 e poi, per 20 franchi al mese, in via delle Belle Donne n. 16, sulla stessa via dello studio del prof. Antonio Ciseri, dove ai giorni nostri al piano terra c’è la trattoria “Belle donne”. Mentre un tempo era una vecchia “mescita”, dove si vendevano vini e liquori, oggi, questa trattoria piccola e movimentata, è un tempio per buongustai.
La sua permanenza a Firenze, durata tredici anni, è interrotta da saltuarie visite in Trentino nel periodo estivo e durante le feste natalizie e da due soggiorni a Roma nel 1872 e nel ’74 con la sorella Isabella.
Nel 1867 esegue il suo primo quadro “Trovatore” definito così da lui stesso in una lettera che invierà nel 1870 a Trento al barone Giovanni a Prato in cui lo prega di venderlo e disegna anche a carboncino “Ritratto del poeta Aleardo Aleardi”. Si conserva anche un acquerello “Michelangelo incontra Cosimo de Medici ed Eleonora di Toledo”, donato con dedica dalle sorelle Luigia ed Isabella Prati all’ing. Diego Tomasi.
La morte di Domenico Prati avvenuta l’11 novembre 1867 lascia la famiglia in gravi difficoltà economiche. Il barone Giovanni a Prato interviene con successo affinché la famiglia possa mantenere il molino di proprietà come abitazione con una lettera inviata il 30 gennaio 1868 al sig. Cirillo Broso, amministratore di uno dei creditori, approfittando dell’occasione per tessere le lodi di Eugenio.
Io non conosco da vicino della famiglia lasciata dal povero Domenico che l’alunno pittore Eugenio, del quale ricevo frequenti notizie da parte di persone le più accreditate in Firenze, che tutte mi scrivono Eugenio Prati promette di raggiungere una rara perfezione nell’arte. Egli lavora molto diligentemente ed è uno dei più lodati discepoli dell’illustre pittore Ciseri e gode la protezione speciale del signor Canestrini, bibliotecario della Magliabecchiana e dei poeti Prati e Aleardi, nonché del direttore dell’agenzia d’Assicurazioni Generali signor Francesco Gentili e di molti altri” così scrive Giovanni a Prato.
Di questo periodo si conserva un disegno a matita d’ispirazione patriottica ed irredentistica dal titolo “Italia incatenata” (Fig. 29); due figure femminili, una incatenata, vestita con vesti tipiche popolari trentine e l’altra con la corona in testa che rappresenta l’Impero austro-ungarico. Prati, dopo l’esito negativo della III guerra d’Indipendenza, ha voluto rappresentare lo stato d’oppressione del Trentino. Eugenio avrebbe voluto realizzarlo con la tecnica dell’olio su tela, ma è costretto a desistere, come si narra in famiglia, per le gravi conseguenze a cui sarebbe andato incontro.
Lo zio paterno Stefano (Fig. 30), nato il 17 dicembre 1803 e morto il 18 agosto 1891, commerciante di vino a Caldonazzo ed a Levico e possidente terriero, da questo momento aiuta economicamente la famiglia come testimonia una lettera di Lucia Garbari Prati del 9 giugno 1868 inviata al figlio Eugenio: “…L’altro giorno lo zio Stefano Prati ci comperò un buon mulo e anche un maiale, che in tutto spese quatordici marenghi, e adesso per lavori che ci vuole dietro al mulino dovrà fare la spesa di altri venti. Egli ci vuole bene e vi fa da padre, perché se non era lui che ci faceva sigurtà per comperare il mulino per cinque mila fiorini, (che è già due mesi che siamo qui ad abbitarlo) saressimo su d’una strada, dunque tu vedi che bisogna essergli riconoscenti…”.
Si dedica in questo periodo prevalentemente a pitture di genere storico. Nel mese d’ottobre del 1867 esce il bando con regolamento del concorso nazionale triennale di pittura dell’Accademia di Firenze che prevede la raffigurazione dell’incontro tra Michelangelo e Federico Barocci all’epoca degli studi del giovane di Urbino a Roma. Su suggerimento del prof. Antonio Ciseri vi partecipa e dopo vari mesi di lavoro presenta il dipinto (Fig. 31) con cui il 26 dicembre 1868 riceve la medaglia d’oro (Fig. 32) e una somma di denaro di 1.120 lire (il primo premio non era assegnato dal 1860). Il quadro ora è esposto al pubblico in terza fila nel salone dell’Ottocento della Galleria dell’Accademia di Firenze. Presso la famiglia sono conservati un disegno a matita del giovane Federico Barocci e l’inedito bozzetto ad olio su tela “Il Barocci presentato a Michelangelo” (Fig. 33).
Si riporta la descrizione del dipinto dello stesso Prati, conservata nell’Archivio Prati di Ivano Fracena: “…In questo giovane (Barocci) mi proposi ritrarre principalmente la natural verecondia e l’umile timidità; ch’egli quindi arrossisca compreso di reverenza sì grande Uomo, non senza lasciar trasparire sul suo volto un’aria di contentezza per le lodi e gli incoraggiamenti che riceve. Nello Zuccheri volli esprimere la franchezza e lealtà dell’amico, che gioisce con rispettoso sorriso delle lodi prodigate al compagno. Nelle rimanenti figure ho inteso rappresentare gli altri giovani mossi chi da curiosità, chi da interesse o benevolo o invidioso, per quello che succede. Nel fondo ho messo una delle tante facciate di case, alle quali ha lavorato Polidoro, e dove stavano i giovani a disegnare. Per ricordare che l’azione succede a Roma ho disegnato e dipinto in lontananza il Castel St. Angelo”.
Al banchetto offertogli dagli amici e sostenitori, a cui il poeta Giovanni Prati pronuncia un discorso in onore dell’artista, suo compatriota, sono presenti anche i poeti Aleardo Aleardi e Andrea Maffei. Alla fine degli anni ’60 conosce il sig. Anton Hautmann, pioniere della fotografia e proprietario in società di un famoso studio fotografico a Firenze in via della Scala n. 18. Presso l’archivio Prati di Trento è conservata una fotografia del 1869 della sorella di Eugenio Isabella, eseguita dallo studio Hautmann. Eugenio da lezioni di pittura alla figlia Paolina Hautmann della quale s’innamora ma i genitori s’oppongono al matrimonio perché ritengono che un artista alle prime armi non sia in grado di offrire delle garanzie economiche per la loro figlia. Di questo avvenimento è conservato presso l’archivio Tullio Garbari di Trento una lettera dell’abate Giovanni a Prato del 4 agosto 1870, inviata ad Eugenio, in cui cerca di rincuorarlo per il dispiacere amoroso.
Dopo la morte della madre Lucia Garbari avvenuta il 10 aprile 1869 all’età di cinquant’anni, anche i fratelli del pittore continuano a vivere al molino di Caldonazzo accuditi dalle zie, tranne Michelangelo, che è affidato ad una zia di Borgo Valsugana. Eugenio a giugno inizia a lavorare su commissione del prof. Domenico Chiossone di Genova a “Il Generale Garibaldi a Milazzo” (Fig. 34), esposto alla Società Promotrice di Belle Arti di Genova dal 7 al 30 novembre del 1869.
Prati decide di rendere omaggio a Giuseppe Garibaldi, immortalandolo in un ritratto che si oppone ai canoni della ritrattistica celebrativa risorgimentale di gusto romantico, in cui il Generale è visto come semplice uomo capace di percepire le sensazioni del momento. Il paesaggio avvolge Garibaldi grazie al sapiente uso della luce e dei colori dai toni caldi e morbidi mentre in primo piano risalta il realismo del cavallo bianco. Nel foglio di sala redatto in occasione dell’esposizione del dipinto presso Palazzo Geremia, sede del Comune di Trento, nel luglio 2002 si commenta: “Un lavoro compiuto nel primo periodo di attività dell’artista, che lascia già trasparire alcune caratteristiche della sua pittura migliore, dalla predilezione per alcune tonalità di colore, all’indagine psicologica delle persone raffigurate.
Il paesaggio avvolgente, interloquisce con la figura in una consonanza affettiva tra l’uomo e il luogo dove lo sfondo, non di invenzione ma veritiero, si perde all’orizzonte nella luce tenue e dolce dell’imbrunire. La raffigurazione del cavallo bianco, per la cui realizzazione Prati ha chiesto di poter studiare dal vero un esemplare appartenente alle scuderie reali, è dipinto con forte realismo, come lo sono la vegetazione circostante, le agavi, i sassi e la terra, il cui beige rosato sarà una tonalità molto amata e frequentemente utilizzata nei dipinti del periodo di Agnedo (1880-1892)”.
Nel foglio di sala si scrive inoltre: “Di notevole abilità è lo studio psicologico di Garibaldi, visto come persona comune e non come eroe vittorioso. Un uomo stanco, dall’espressione assorta, il cui pensiero va ai compagni perduti sul campo di battaglia. Incurante del saluto rivoltogli dal gruppetto di garibaldini che trasportano la bandiera tricolore, volge lo sguardo indietro, tormentato dal vivo ricordo della violenta battaglia. Alle spalle di Garibaldi, protetta dal mare e dalle possenti mura di cinta, si erge la fortezza di Milazzo, espugnata con tanta difficoltà. I toni caldi e morbidi che tingono le pareti della rocca, rendono meno minacciosa la struttura militare affacciata sull’acqua. Le pennellate verde-blu del mare si confondono con quelle della piana verdeggiante su cui camminano i soldati”.
In due lettere dirette a Giovanni a Prato, Eugenio Prati parla di alcuni aspetti della composizione del quadro di Garibaldi, della visita del figlio Ricciotti Garibaldi a Firenze e dell’entusiasmo degli artisti per l’opera durante la sua esposizione a Genova: “Queste parole mi han fatto molta consolazione, perché ne avevo proprio di bisogno, avendo incontrato nel quadro molte difficoltà, prima di tutto per la luce di sole che ho voluto applicare al quadro, e poi quel benedetto di cavallo mi fece affatticare in modo unico io avrei fatto molto presto per fare un cavallo ma siccome alla generalità artistica piaceva in un modo unico la mula che feci nel quadro del Michelangelo e perciò non ho voluto far meno il cavallo, anzi piacque ancora più”.
Eugenio racconta in questo modo della visita del figlio di Garibaldi: “Giorni fa ebbi l’onore e la fortuna di essere presentato davanti al Riciotti Garibaldi che mi usò tante gentilezze e nello stezzo (stesso) tempo godeva nel sentire che io ritratto (ritraessi) il suo Eroe genitore a cavallo. Contento di aver fatta la mia conoscenza mi a (ha) chiesto se gli permettevo di visitare il mio studio. Si figuri dissi, per me sarebbe uno di quei regali da non poterlo descrivere anzi mene (me ne) andrei superbo. Dirò il vero che sono stato commosso a conoscere la bontà e semplicità senza superbia di questo caro e buon giovine. Mi han promesso che quando verrà qui a Firenze il suo padre me lo condurranno nello studio così mi servirà di modello per dare qualche tocco al ritratto del medesimo”.
In una lettera diretta ad Eugenio Prati, l’incisore David Chiossone di Genova, fratello del committente, esprime la sua soddisfazione, degli artisti e frequentatori dell’Accademia di Belle Arti di Genova per il dipinto “Il Garibaldi a Milazzo” ed afferma che: “il ritratto del Generale è perfetto”.
In seguito David Chiossone realizza un’incisione del dipinto che è pubblicata nel 1932 dalla rivista “Trentino” a p. 188 all’interno dell’articolo “Garibaldi e il Trentino” di Pietro Pedrotti e nel 1966 a p. 11 del libro di Ezio Mosna “La campagna del 1866 nel Trentino”.
Nell’ottobre del 1869 Eugenio ottiene anche uno studio gratis presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze e Prati considera l’evento “una bella fortuna” e la prova che Dio non lo aveva abbandonato dopo tante disgrazie.
Durante il lungo periodo di formazione accademica si avvicina alla pittura realista veneta, subisce l’influenza dei Macchiaioli toscani e quella degli Scapigliati lombardi sviluppando uno stile alquanto personale in cui la rigidità del disegno va via via scomparendo per lasciare il posto ad una pennellata vaporosa dai contorni sempre più sfumati.
Nel 1870 dipinge il ritratto dei baroni “Valentino e Isidoro Salvadori” di Trento e il 26 marzo 1870 a Firenze conosce la contessa trentina Virginia Alberti Poja e sua figlia, la baronessa Giulia Turcati (1848-1912), in visita al maestro Antonio Ciseri; così scrive Giulia nel suo diario: “1870-26 marzo (Firenze): nello studio di Eugenio Prati erano parecchie tavole antiche e un pianoforte scordato. Un insieme strano e geniale. Andammo all’Accademia a vedere alcuni quadretti di Prati”.
S’instaura un rapporto amichevole ed è invitato nella residenza estiva di Sopramonte. La villa Turcati, che sorge al centro del piccolo paese Sopramonte lungo la strada fra Trento e il monte Bondone, è un luogo d’incontro per artisti, letterati, musicisti. Prati frequenta la famiglia Turcati anche a Trento e nasce un intenso rapporto epistolare con la baronessa Giulia che durerà per sempre.
L’1 novembre 1871 ottiene una borsa di studio artistica provinciale di 500 fiorini annui conferitagli dalla Giunta provinciale tirolese di Innsbruck. La borsa di studio richiesta da Prati con una lettera del 29 agosto 1871, potrà essere rinnovata negli anni successivi solo se l’artista sarà in grado di dimostrare un soddisfacente progresso pittorico.
Dipinge nello stesso anno il ritratto dello scultore “Andrea Malfatti” (1832-1917), di proprietà del Comune di Trento conservato presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (Fig. 35), il ritratto di “Monsignor Giovanni Battista Boghi”, conservato presso la Biblioteca Comunale di Caldonazzo, dei coniugi di Pergine dott. “Fortunato Montel” e signora “Cattarina Montel” conservati presso il Comune di Pergine Valsugana, del conte “Guglielmo Bossi-Fedrigotti” ed infine due ritratti inediti dello zio “Stefano Prati” (1803-1891) (Fig. 30), e del cugino “Lorenzo Prati” (1842-1899), giudice distrettuale a Borgo Valsugana (Fig. 36).
In questi anni all’Esposizione Solenne di Belle Arti di Firenze del 1872 espone l’opera “Dante dalla sua casa vede Beatrice” e dipinge il ritratto di “Giobatta Graziadei”, zio del farmacista e amico Damiano Graziadei, conservato nell’ufficio del Sindaco di Caldonazzzo; poi si trasferisce a Roma in compagnia della sorella Isabella (1849-1938) dove esegue il “Ritratto della sorella Isabella” (Fig. 37) in costume ciociaro che porta nelle mani un cestino di frutta ed espone alla Mostra Nazionale di Brera a Milano dello stesso anno “Donna romana”, una contadinella nell’interno di una casa della campagna romana e il carboncino della baronessa Giulia Turcati (Fig. 38).
Realizza nel 1873, su commissione dell’ingegnere Saverio Tamanini, “San Adalberto” per la cappella della Villa Bernardelli a Gocciadoro di Trento, ora conservato temporaneamente presso il Castello del Buonconsiglio di Trento, il ritratto del “Re Vittorio Emanuele II”, scomparso a Caldonazzo durante la Prima Guerra Mondiale (1914-18) e della “Principessa Margherita di Savoia” (Fig. 39) in costume sardo, ora a Caldonazzo in possesso di un discendente.
Nel 1874 esegue il “ritratto della sorella Luigia” (Fig. 40) e si trasferisce nuovamente per alcuni mesi a Roma in compagnia della sorella Isabella per compiere ulteriori studi. Frequenta il poeta Giovanni Prati, divenuto senatore e direttore dell’Istituto superiore di Magistero e riceve la visita della baronessa Giulia Turcati, a Roma insieme con la madre Virginia nei primi giorni d’aprile. Infatti, dal diario della Turcati si apprende: “1874 – 1 aprile (Roma): La giornata si finì al Caffè con alcuni trentini, fra cui il pittore Prati, che è sempre in giro con noi e il poeta Prati. Quando Pratino junior (il pittore) gli raccontò che io studiavo Leopardi, si drizzò con fare altero e rispose: le Signorine di Roma studiano tutte il signor Prati! (In quel giorno Giulia Turcati compie 26 anni). 6 aprile: più tardi feci un giro artistico col Prati, per vedere parecchie cose che ancora non conoscevo”.
Durante il suo soggiorno a Roma esegue il ritratto della contessa romana “Beatrice Cenci o Bice” (n. 1) in cui Prati rappresenta la storia drammatica della giovane nobildonna, simbolo dell’innocenza calpestata, affacciata ad un davanzale in un atteggiamento di disperazione. Delicati il vestito di raso, il diadema, la collana e gli orecchini che ornano elegantemente un aristocratico e triste viso di donna, dai colori morbidi e tenui. La storia di Beatrice Cenci (1577-1599), condannata a morte con l’accusa di parricidio da Papa Clemente VIII sulla piazza di ponte Sant’Angelo ha colpito la fantasia di artisti, musicisti, poeti e drammaturghi particolarmente dall’Ottocento in poi. Beatrice Cenci visse un’esistenza perseguitata dalle attenzioni sessuali e dalle percosse del padre Francesco Cenci finché con l’aiuto della matrigna e dei fratelli si ribellò alla tirannia del padre.
Del dipinto scrive la baronessa Virginia Alberti Turcati (lettera dell’1 luglio ’74 a Eugenio Prati): “Ritorna Giulia a cui la Cenci piacque assai, meno anche a lei quella macchia al naso a cui bisognerebbe proprio rimediare. Ma trovo bello il colorito e assai somigliante”.
Esegue “San Vigilio” (Fig. 41) per il Seminario minore e lavora su commissione alla tela “Immacolata” (n. 2) per la cappella del Collegio Arcivescovile di Trento, ora conservata presso l’Aula magna del Seminario Maggiore di Trento. Di quest’opera si conserva anche un acquerello preparatorio. La Madonna poggia sul mondo avvolto da nuvole impalpabili e guarda, con le mani giunte, verso l’alto in segno di devozione e reverenza. Prati ritrae lo sfondo sfruttando i toni del grigio e del rosa in modo evanescente e rarefatto. Nello stesso anno dipinge “il Paggetto” (Fig. 42) e “Giovane ragazzo” (Fig. 43), pubblicati per la prima volta.
Nel 1875 realizza un altro “Ritratto della sorella Luigia” (1845-1931) e “Immacolata” per la chiesa di Strigno, in Valsugana e durante la cerimonia d’inaugurazione conosce Ersilia Vasselai di Agnedo che tre anni dopo diviene sua moglie. Nel 1918 durante la ritirata dell’esercito austro-ungarico da ignoti è asportata dalla cornice, tagliandone la tela. Lavora alla pala “Sant’Antonio” (Fig. 44) per la chiesa di Lasino, commissionatagli dalla Contessa Maria Revedin Bassetti per la guarigione della figlia Antonia.
Nello stesso anno dipinge ad olio “Caldonazzo con piccola capraia” (Fig. 45), “Bieno con due capraie in costume tesino”, inedito (Fig. 46), “Levico”, “Recoaro” e “Strigno” che rappresentano le sue prime opere di un’arte legata alla realtà quotidiana, la pittura “en plein air”, in altre parole l’esecuzione all’aria aperta con il soggetto illuminato dalla luce del giorno quasi sul tramonto, appresa dai macchiaioli a Firenze.
È l’inizio ufficiale del suo verismo; nella tela ambientata a Caldonazzo Prati raffigura con dovizia di particolari una graziosa bambina con una capra davanti ad una caratteristica abitazione in via Villa.
Lo scrittore e poeta Raffaello Prati nel 1957, in occasione del cinquantenario dalla scomparsa di Eugenio Prati nel libro di don Ettore Viola, parroco di Caldonazzo, dal titolo “Eugenio Prati pittore ottocentista” la descrive in questo modo: “La vecchia Caldonazzo, quella del Prati che va sfumando nell’alone buono dell’età passata: l’ombra scende compatta su le cose e lotta con il sole, che ancor resiste: la casa con scarsi segni di vita, quasi vuota vacua esamine. Le porte dense di oscurità. E su le spente cose: un segno di vita: in alto una camicia che si agita all’aria, in cerca di sole, in primo piano due semplici creature, che anch’esse passano. Meraviglioso paesaggio che ormai non è e non sarà più quello”.
Nel 1876 il conte Lodron gli commissiona il “San Giuseppe” per la chiesa di Villa Lagarina che consegna nel 1878. Prati dipinge San Giuseppe nelle vesti di falegname con in braccio Gesù Bambino, dall’espressione dolcissima e tenera, ed in pugno nell’altra mano il bastone fiorito di gigli bianchi, simbolo, secondo l’iconografia classica religiosa, di purezza e del fatto che Giuseppe fosse stato il prescelto per diventare sposo di Maria. Si notano nel pregevole dipinto, recentemente restaurato, un banco da lavoro, una pialla e sul pavimento a piastrelle una pinza e dei trucioli di legno descritti con tale realismo da sembrare veri.
Nel 1877 partecipa all’Esposizione di Belle Arti di Milano esponendo “Madre Amorosa” e “Sequestro” (Fig. 47) del 1876, fra gli ultimi dipinti eseguiti a Caldonazzo prima di trasferirsi ad Agnedo che rappresenta una pagina dolorosa della famiglia Prati, quando dieci anni prima, in seguito al mancato pagamento di una grande partita di vino da parte di un cliente veneziano, suo padre Domenico dovette subire l’onta del pignoramento dei mobili.
Vittorio Zippel così descrive “Sequestro” in “Archivio Trentino” nel settembre del 1907: “Nella cucina di una casa colpita dalla miseria il funzionario giudiziale sequestra il mobilio di una povera famiglia; la madre, seduta con un bambino fra le ginocchia e con due altri figlioli vicini, fissa lo squadro accorato nel volto del marito che, presso la finestra, assiste mestamente alla rovina di tutto il suo avere. L’espressione del dolore è resa in modo assai toccante in questo quadro, che ha dei particolari grandemente pregevoli, oltre che per la composizione, anche per la tecnica”.
Partecipa anche nel 1877 all’Esposizione Solenne di Firenze con “Piccola Mendicante” del 1875, raffigurante una giovane ragazza dal viso mesto mentre sulla porta stende la mano in atto di chiedere l’elemosina; l’opera è premiata con la medaglia di bronzo ed acquistata dal Governo italiano per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; espone anche “Madre amorosa” (n. 3) del 1877 ambientato in una tradizionale cucina trentina, in cui descrive gli sguardi allegri e amorevoli scambiati tra mamma e neonato mentre la donna si sofferma davanti alla culla ed attira l’attenzione del piccolo facendolo giocare con il rocchetto di filo che pende dal fuso.
Nel catalogo della mostra del 2004 dal titolo “Il Secolo dell’Impero” organizzata dal Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto al Palazzo delle Albere di Trento sono descritti i particolari di “Madre amorosa”: “Con il rocchetto del filo che pende dal fuso, attira lo sguardo del bimbo dal piccolo capo biondo adagiato su un cuscino. Sul manico del cesto di vimini che fa da culla, è posta una copertina a righe dal morbido tessuto. La bravura con cui Prati dipinge la coperta si trova in tanti altri particolari, dai fiocchetti che chiudono lateralmente la fodera del cuscino, al lenzuolino della culla, all’intreccio di vimini del cesto. Il tegame per terra coperto da uno straccio e i rami appesi sono delle nature morte ben riuscite”.
Nello stesso anno dipinge “Dama che fuma” (Fig. 48), un olio su tavola rientrato da poco in Italia dalla Spagna, in cui ritrae in modo originale e scherzoso la baronessa trentina Giulia Turcati durante una visita a Firenze in quell’anno. Da una lettera conservata presso la famiglia Prati si apprende che Giulia Turcati cercava in tutti i modi di convincere Prati a dipingere solo soggetti storici o religiosi e non raffigurazioni veriste o di paesaggio: “Scegliete un argomento che scenda dritto al cuore… questa cara Italia ne offre tanti nella mirabile sua storia!… Voi stesso, sollevandovi da quella rete di piccole idee vi sentirete nobilitato, e non solo per le vostre proprie impressioni, ma anche per l’effetto che otterrete su quelli cui sarà dato contemplare un lavoro più altamente inspirato dei soliti. Non vi mancheranno i ritagli di tempo da dedicare a quei dipinti che possono recare materiale vantaggio”.
In quest’opera Eugenio realizza un piacevole scherzo dipingendo l’amica che, volgendosi verso il pittore con sguardo partecipe, compie un gesto indecoroso per una signora, quello di fumare. Sullo sfondo del ritratto Prati con grande abilità tecnica realizza un arazzo, quasi un secondo quadro di ispirazione realista, compiendo così un affronto all’amica che lo incitava ad eseguire solo raffigurazioni storiche e non veriste. Durante il soggiorno a Sopramonte Prati esegue quasi un centinaio di disegni a matita, ad acquerello, pastello ed a china che poi lascerà all’amica Giulia Turcati, sua allieva di pittura. Grazioso è il disegno a matita inedito “Fatevi monaca?” che faceva parte dell’album di Eugenio Prati (Fig. 49).
Nell’ambiente aristocratico e culturale trentino il salotto letterario della baronessa Giulia Turcati è noto per essere stato un punto di riferimento dell’arte pittorica, della musica e della letteratura, ma anche delle istanze liberali e del sentimento di italianità. Le cronache e le fonti riportano la frequentazione della villa Turcati a Sopramonte di Raffaele Frontali (1849-1916), primo violinista al Teatro La Fenice di Venezia, del tenore Enrico Caruso (1873-1921), del musicista e compositore Giacomo Puccini (1858-1924), di Riccardo Selvatico (1851-1901), sindaco di Venezia e promotore della prima Biennale di Venezia, di Ugo Ojetti (1871-1946), critico d’arte, giornalista e scrittore, di Angelo de Gubernatis (1840-1913) letterato e scrittore, di Luisa Anzoletti (1863-1925), poetessa, letterata e pianista e del micologo don Giacomo Bresadola (1847-1929). Tra i pittori ricordiamo oltre ad Eugenio Prati, maestro di pittura della famiglia, la frequentazione degli artisti più famosi dell’Ottocento tra cui il cugino della baronessa Bartolomeo Bezzi (1851-1923), Filippo Carcano (1840-1914), Francesco Paolo Michetti (1851-1929), Alessandro Zezzos (1848-1914), Ettore Tito (1867-1941) e Angelo Dall’Oca Bianca (1858-1942).
Il critico d’arte Carlo Piovan nella rivista mensile “Trentino” del 1932 descrive che Eugenio Prati e Bartolomeo Bezzi assistono alla scoperta del talento trentino Umberto Moggioli (1886-1919) che, nel 1902 all’età di sedici anni, si reca a Trento in via S.Trinità nella casa Turcati per sottoporre ai suoi ospiti un suo dipinto di paesaggio. “La signora e i due pittori, incuriositi e allettati dall’insolito caso, si fan venire dinnanzi il ragazzo. È il battesimo dell’arte sua. Ecco il quadro: Bezzi guarda, Prati guarda. Poi Eugenio Prati sorride: “scometo che te l’ai piturà dopo che l’aveva piovù”. “L’è vera” esclama il piccolo Moggioli. E il cuore gli ride d’allegrezza. Dunque il quadro è vero! E corre a casa. E ora sfoga la sua gioia con la madre, con tutti, perché Eugenio Prati ha indovinato. Colpiti dalla sensibilità pittorica di Moggioli, lo presentano al mecenate trentino Antonio Tambosi che gli paga una piccola pensione per frequentare l’Accademia del Belle Arti a Venezia”.
La “Gazzetta di Trento” il 10 agosto 1878 pubblica un articolo a proposito di “Sequestro” in cui è descritto con estrema ammirazione: “Bisognerebbe essere senza occhi e senza anima per non rimanere estatici davanti a quelle sublimi creazioni che sembrano propriamente venute da una mano sovrumana” e il 5 maggio 1878 il quotidiano “La Valsugana” pubblica un sonetto di Battista Dosso ispirato al dipinto dal titolo “Sequestro”.
Il 26 maggio 1879 Eugenio trentasettenne sposa Ersilia Vasselai (1861-1913). Il matrimonio è celebrato da Don Giuseppe Grazioli, tutore di Ersilia, orfana di entrambi i genitori ed in viaggio di nozze si recano a Venezia. Vive con la moglie un anno a Caldonazzo al molino dove esegue tre ritratti della moglie, due ad acquerello mentre ricama sul balcone del molino (Fig. 50), ed uno ad olio e poi si trasferisce ad Agnedo alla fine del 1880 nella casa della moglie, ora di proprietà del Comune e sede d’accoglienza per anziani.
EUGENIO PRATI NEL SECONDO PERIODO
DI AGNEDO DAL 1880 AL 1892
Termina il soggiorno fiorentino più volte interrotto dai viaggi a Roma, a Caldonazzo, a Sopramonte ed a Trento. Con il rientro in Trentino, cambiano i temi della sua pittura ed ha modo di osservare la vita quotidiana di paesani, contadini e pastori che ritrae con pennellate briose e con una sottile vena umoristica tanto apprezzata da pubblico e critica. È considerato l’artista trentino più attento alle tradizioni locali ed alle bellezze naturalistiche della sua terra.
Il matrimonio con Ersilia porta al pittore una certa agiatezza economica che gli permette di dedicarsi ai temi di genere senza essere più obbligato ad assecondare i committenti con quadri religiosi e storici.
Espone “Amor non prende ruggine” (prima versione) che vuole rappresentare l’amore che lega ancora due persone anziane con gesti d’affetto mentre la donna fila la lana con il fuso di legno e presenta “Uva e pesche” e “Meditazione e lavoro” nel 1879 a Monaco di Baviera dove sono acquistati. Nell’anno successivo partecipa all’Esposizione Solenne di Firenze del 1880 con quattro opere: “Amor non prende ruggine” (seconda versione), “Vittoria Colonna visita lo studio di Michelangelo”, scomparso a Caldonazzo durante la Prima Guerra Mondiale (1914-18), “Piccolo prigioniero” (Fig. 51) del 1880 che raffigura un bambino melanconico, rassegnato, scalzo, seduto e legato con una corda alla gamba di una sedia della cucina e “Il piccolo cantiniere”.
“Amor non prende ruggine” (n. 4) è una scena d’intimità tra due anziani che sostano in cucina presso il focolare, scambiandosi numerosi gesti d’affetto. Ritrae con estrema maestria e realismo i singoli particolari come gli oggetti della cucina, i tegami e la stufetta. La luce illumina il viso dei due anziani segnato dal tempo come a sottolineare che sono loro il centro focale della scena rappresentata. Mette in evidenza perfino in modo preciso le vesti e i tessuti al punto da farne quasi apprezzare lo spessore.
Nel 1881 partecipa all’Esposizione solenne di Firenze con “Uva” del 1881, “Piccolo prigioniero”, “Girovaghi” (1878) venduto ad un collezionista di New York, “La vedova”, “Piccolo cantiniere”, “Studio e lavoro”, “Verrà” e “La Mendicante” ed espone sette dipinti alla mostra nazionale di Milano al palazzo del Senato tra cui “Amor non prende ruggine” (seconda versione), “Piccolo prigioniero”, “Istruzione della nonna”, acquistato per 1.200 lire dal collezionista Val Schof di Londra, “Alla mia vecchietta”, “La mendicante”, “La vedova”, comprato da un collezionista svizzero di Berna, “Nozze d’oro”, ammirato dall’imperatrice d’Austria Sissi che visita personalmente le sale dell’esposizione e “Abile” del 1880.
“La mendicante” del 1881 (n. 5), rappresenta una giovane ragazza dal viso affilato, melanconico e dagli occhi incavati, che apre timidamente una porta per chiedere l’elemosina. L’opera, ricca di pathos, è racchiusa in un’originale cornice xilografata a spruzzo dall’artista raffigurante un’altra mendicante contornata da margherite, ora conservata presso il Comune di Ardore in provincia di Reggio Calabria.
Prati nella tela “La vedova” dipinge una donna vestita a lutto seduta su una sedia che tiene nelle mani il suo scrigno con i gioielli e davanti a lei un uomo che sta valutando con la lente il valore di un anello.
Nel dipinto “Abile”, ritrae una giovane recluta in procinto di partire per il servizio militare mentre consola la sorella piangente (Fig. 52).
Eugenio è ispirato dal fratello Giulio Cesare, anche lui pittore, che proprio nel 1880 parte per il servizio militare come Landschützen (Tiratori scelti provinciali) nell’esercito austro-ungarico. La scena è ambientata nel soggiorno del molino Prati a Caldonazzo; a fianco della ragazza, che ha le sembianze della sorella Isabella, ritrae con estrema dovizia di particolari il cassettone, scalfito dalla baionetta di un francese durante l’invasione napoleonica del 1801. Come si può notare dall’autoritratto di Giulio Cesare (1882 circa) risulta evidente la somiglianza tra Giulio e il ragazzo rappresentato in quest’opera.
Nell’opera “Alla mia vecchietta” (n. 6) ritrae una tenera scena di quotidianità tra due anziani ambientata nella loro umile abitazione. Il vecchietto brinda in onore della moglie che gli ha portato il pranzo mentre era intento a svolgere il suo lavoro di calzolaio. Eugenio, manifestando le sue ottime abilità realistiche, ritrae i singoli particolari con estrema adesione alla realtà. Descrive le pieghe dei tessuti, le sfumature che la luce realizza sui tessuti, sugli oggetti e sul pavimento e perfino l’intonaco delle pareti sporco di fuliggine, fornendoci una fedele rappresentazione della realtà del tempo.
“Nozze d’oro” (n. 50), dipinta in tre versioni, la prima del 1880, la seconda del 1881 e la terza del 1896, rappresenta la festa del cinquantesimo anniversario di matrimonio; è ambientata a Villa Agnedo in inverno dove una coppia di anziani sposi, in costume tipico festivo della Valsugana orientale, scende da una scala in pietra coperta di neve, seguita dai figli, nuore e nipoti, avviandosi verso la chiesa, accompagnata in segno di festa dallo sparo in alto di due pistole, impugnate dai nipoti. Sullo sfondo la collina coperta di neve di Castel Ivano. Prati in questo dipinto di scuola realista nella terza versione si diletta persino a rappresentare le orme del passeggio sulla neve e il loro diverso colore.
Si è giunti ultimamente alla conclusione che esistano tre versioni confrontando le due fotografie d’epoca, una conservata presso l’Archivio di Ivano Fracena con la segnatura “E. Prati 80” (Fig. 53) e la seconda scoperta di recente, custodita presso un collezionista di Caldonazzo con la segnatura “E. Prati 1881” (Fig. 54), con la fotografia a colori del dipinto conservato alla Galleria Belvedere di Vienna e gentilmente concessa per la pubblicazione a colori per la prima volta, dove è apposta solo la firma “E. Prati” senza la data.
La seconda versione è presentata in seguito a numerose altre mostre tra cui: il Salon des artistes francais di Parigi del 1883, l’Esposizione Internazionale di Nizza del 1883-84 dove è premiato con la medaglia d’argento (Fig. 55), l’Esposizione italiana di Londra del 1888. Nel 1896, la terza versione per richiesta dell’imperatrice Sissi, è acquistata dall’imperatore Francesco Giuseppe ed ora si trova alla Galleria Belvedere di Vienna.
Dipinge “Ritorno dalla sagra di Santa Apollonia” (n. 7), dove due innamorati si dirigono a casa al tramonto dopo la giornata di festa passata a Spera in Valsugana. Siamo in inverno e precisamente il 9 febbraio, giorno di Sant’Apollonia, gli alberi sono brulli e il terreno ripido e scosceso è arso dal gelo. Entrambi stanno scendendo a valle: lei si appoggia alle spalle del suo ragazzo ed ascolta le sue dolci parole. Sullo sfondo la Pieve di Spera che svanisce nella sfumata luce del tramonto. Nello stesso anno esegue anche “Cristo morto” (n. 8), unica opera su tavola di noce di soggetto religioso dipinta assieme al carboncino “Gesù nell’orto degli Ulivi” (n. 21) del 1889 durante il periodo di Agnedo, conservato nel refettorio del Monastero San Damiano di Borgo Valsugana, sede dal 1984 dell’ordine delle suore Clarisse di clausura. Si tratta di un Cristo martoriato, carico di tensione emotiva, mentre riposa nel sepolcro avvolto in un candido lenzuolo dalle numerose pieghe che presenta ai suoi piedi i chiodi e la corona di spine, strumenti del supplizio della crocifissione. Il viso, segnato dalle ferite della corona di spine, esprime una profonda commozione dell’artista e il terreno su cui riposa avvolge l’intera figura grazie al sapiente uso dei colori dai toni caldi e morbidi. Dona il quadro ai frati Francescani del Monastero San Damiano di Borgo Valsugana che ogni settimana lo ospitano a pranzo. La data d’esecuzione di quest’opera, apposta a fianco della firma, è coperta dalla cornice e ciò ha fatto sì che gli studiosi di Prati pervenissero ad un’erronea datazione riferendola al 1884. In realtà l’esecuzione dell’olio è del 1881 come apposto dall’artista.
Nella recensione dell’esposizione di Milano al palazzo del Senato del 1881, Luigi Chirtani racconta ai lettori del “Corriere della Sera” come il pittore trentino abbia “…persa la bianchezza biaccosa che lo attristava o per meglio dire l’ha soffusa di un calore penetrante e leggero” realizzando “…uno stile originale e un’espressione animata dal sentimento di vita intima che distingue molti pittori inglesi”.
La rivista “Fanfulla” il 30 dicembre 1881, descrivendo la mostra di Milano, commenta: “E quanta grazia, quante verità negli elementi, quanta espressione nella fisionomia, quale aristocratico tiepolesco, disinvolto colpo di pennello nei lavori di Eugenio Prati. La sua Mendicante, Il piccolo prigioniero, la Vedova, il Verrà?, Studio e lavoro mi sembrano cose bellissime. Perfino il suo grappolo d’uva ha una vita, che non si trova in altre diligenti imitazioni di frutta. Le uve degli altri sono morte; l’uva del Prati appare in comunicazione di linfa col ceppo, la leccatura artistica non ne ha spogliato la trasparente epidermide della polvere cerea che ne attesta la vigorosa maturità”.
Nello stesso anno collabora con molti artisti trentini tra cui Bartolomeo Bezzi, Giovanni Pompeati, Andrea Malfatti ed altri alla pubblicazione della “Strenna Trentina” in beneficenza a favore dei bambini degli asili infantili come descritto nel giornale “Il Raccoglitore” del 20 gennaio 1881: “Il pittore Prati si presenta in una veste affatto originale. Nel suo bozzetto della “Carità” (Fig. 56), non solo ci dà un quadretto a contorni, ma riproduce gli effetti del chiaroscuro a lume di candela. Pare quasi impossibile che con l’autografia si possa riuscire a tanto effetto. Gli sprazi vivi di luce che si disegnano sul volto.
Sul grembiule e sullo scialle della donna pietosa che scende dalla scala fanno vivo contrasto coll’ombra fosca de’ vestiti. Il chiarore della candela si diffonde tranquillo ad illuminare il gruppo dolce ed espressivo di quei tre fanciulli che affranti dalla fame e stanchi dal lungo cammino, chiedono quasi vergognosi il soccorso mentre da uno spiraglio della porta, si disegnano confuse le ombre della città a notte inoltrata.
Questo quadro solo basterebbe per provare che il Prati è nato artista. Ma vi sono nella Strenna alcune testine che accrescono, se è possibile, il merito dell’artista. Un moschettiere sinistramente adombrato dal largo cappellaccio, una vecchierella con gli occhiali sul naso che fila pacificamente, una vispa sposa di Tesino assorta in dolce mestizia, sono tutte creazioni amabilissime e di vero merito”.
In questo periodo si reca molto spesso a Venezia dove esegue un pregevole “Interno della Chiesa di San Marco” databile intorno al 1882 di proprietà della Cassa Rurale di Caldonazzo, dove ritrae anche due figure femminili tra cui è riconoscibile la moglie Ersilia. Eugenio dimostra la sua bravura nella riproduzione dei chiaroscuri generati dai raggi di sole che filtrano dai finestroni della chiesa.
Nel 1882 nasce la prima figlia Raffaella (1882-1942) e all’Esposizione di Brera a Milano presenta “Divorzio” (n. 9) in cui la moglie Ersilia con la figlia Raffaella di pochi mesi si presta da modella e la prima versione di “Studio e lavoro”; espone “La vedova”, “Piccolo prigioniero” e “Verrà?” (prima versione) alla Promotrice di Firenze.
Nel 1883 nasce il secondo figlio Angelico (1883-1960) e partecipa per la prima volta al Salon des Artistes Francais di Parigi presentando tre tele: “Nozze d’oro”, “Abbandonata”, e “Piccolo prigioniero”, venduto a Parigi. Nello stesso anno espone all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Brera “Alba o in campagna”. Prati il 12 settembre 1883 scrive a Victore Grubicy: “Ho ricevuto con mia grande soddisfazione lettera dall’amico Bezzi (Bartolomeo), che il mio dipinto che figura all’Esposizione di Brera “In campagna” piace moltissimo agli artisti di costì per la sua originalità: pure il Malfatti (Andrea) mi scrisse con maniere soddisfacentissime…”.
Sempre nello stesso anno presenta con successo all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Firenze le opere “Ritorno all’ovile”, “Evviva!” e “Alla mia vecchietta” e all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Roma cinque dipinti: “In autunno”, “La mendicante”, “Ritorno all’ovile”, “La frutta o Contadino con canestro d’ uva” e “Sequestro”.
Nel 1883 prende parte anche all’Esposizione Internazionale di Nizza con l’opera “Abbandonata” venduta ad un collezionista di Londra e “Nozze d’oro”, premiata con la medaglia d’argento. Vittore Grubicy vende due sue opere “Lezione della nonna” e “Piccolo cantinere” al prezzo di 450 e 350 lire.
Il Coccapieller nel “Raccoglitore” dell’ 8 giugno 1883 segnala così la sua partecipazione: “Il Prati ha esposto alcuni quadri di pregio grande quantunque di dimensioni piccole. Sono circondati da una stessa cornice nera laccata di fregi d’oro, direi quasi una cornice giapponese: la è nuova od almeno all’esposizione è unica ma, quantunque sia bella non conferisce molto alla bellezza dei dipinti che sono “La mendicante”, “L’ovile” e “La Frutta”.
Queste ultime sono dipinte con una maestria veramente straordinaria. Quei grappoli d’uva sono così freschi, così veri che credo più di una mosca si sia tratta in inganno; nuoce alla bellezza della frutta e del quadro l’intromissione di una testa di contadino che regge il canestro colmo di tanta bella roba. “La mendicante” (n. 5) è un quadrettino rappresentante una povera fanciulla dei nostri paesi con la sportola al braccio, tutta lacera, che stende la mano ad accettare: il volto emaciato, gli occhi infossati, sono dipinti stupendamente. Bellissime sono pure le pecore nel “Ritorno all’ovile”. Il Prati ha esposto pure un altro quadro, “Il sequestro” giudicato inferiore ai sopradetti”.
Anche “L’Illustrazione Italiana” il 17 giugno 1883 commenta la partecipazione di Prati all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Roma: “Eugenio Prati è un Trentino che sta con i Veneziani, come Bezzi, non meno Trentino sta coi Milanesi. L’Illustrazione ha segnalato Prati da due o tre anni, ed ogni anno ha avuto motivo di rendergli le lodi più esplicite. Prima era duretto, un pò arido e gessoso di colorito, secchino negli impasti, egli si è venuto riscaldando e facendosi morbido senza cambiare natura; quest’anno si presenta coi difetti trasformati in qualità, la durezza è diventata precisione descrittiva, e nitidezza di forma; il bianchicchio gessoso s’è fatto perlino, trasparente e s’è un pò indorato diventando sobrietà di tono, la magrezza scomparsa sotto un leggero strato cellulare è rimasta allo stato di finezza di costituzione poetica: il tutto insieme forma una pittura che esala quel dolce profumo di sentimenti intimi che forma il fascino di certi pittori inglesi: non somiglia a nessun veneziano.
Egli ha fatto quest’anno un’altra cosa, le cornici come fa Michetti: ma non come le fa Michetti. Ha trovato certe cornici che mi sembrano di vetro dipinto di dietro, a fondo nero, con su foglie, pampini, grappoli d’uva, da far credere alle panzane degli uccelli che beccano l’uva d’Apelle e di Paolo Veronese.
Un genere affatto nuovo quelle cornici ed elegantissimo, bizzarro e simpatico, che poi si addice in modo singolare alle pitture che inquadrano rendendole ancora più fini e graziose. Questo pittore tratta soggetti campestri, pastorizie, contadinelle, pecore e agnelline, e senza fare dell’Arcadia spicca dai temi agresti un’eleganza piena di seduzioni e di fascino”. Nel 1883 dipinge anche l’inedito dipinto dal titolo “La processione” (Fig. 57) e “Alla fontana” (Fig. 58) ambientate entrambi ad Agnedo.
All’Esposizione Nazionale di Torino del 1884 espone sette quadri tra cui “Idillio”, “Uva”, “Momento propizio”, “Fate pace”, “La mendicante”, “In autunno” e “Alba o in campagna”. L’opera “Momento propizio” ritrae una vecchia che si addormenta mentre lavora a maglia, il gatto che gioca con il filo approfittando di non essere visto e il nipote che cerca di rubarle un grappolo d’uva.
Luigi Chirtani in “Corriere della Sera” del 23-24 settembre 1884 commenta il dipinto “Idillio” (n. 10) definendolo: “…una vera poesia di silenzio amoroso, di linee e di profili spiccati sulle tinte modernamente accese di un tramonto roseo”. Infatti, il quadro rappresenta un pastorello sdraiato sul prato in contemplazione di una giovane fanciulla che finge di ignorarlo e cerca di concentrarsi sul ricamo. Seduta sulla cima del colle di Agnedo con un agnellino bianco ai piedi, la sua esile figura si staglia sul panorama della Valsugana tra il monte Fravort, la Panarotta e il profilo di Castel Telvana che sovrasta la valle sopra Borgo.
Nello stesso articolo Chirtani descrive anche le sue cornici: “Talora, come ne ha dato esempio il Michetti, dipinge anche le cornici, ma diversamente del maestro di tocco, con un miscuglio bizzarro di fogliame a spruzzo e figurine a chiaro scuro giallastro su fondo nero di lacca lucida nel quale fa piccare di quei grappoli d’uva che ricordano gli uccelli di Zeusi, raggiungendo una perfezione di lavoro singolarissima, bizzarra e sopramodo aggraziata”.
La baronessa Giulia Turcati descrive così la sua visita alla mostra di Torino: “1884 – 8 maggio (Torino): ammirate le tele di Favretto, Dall’Oca, Giudici, Santoro, Mariani, Calderini, Gignous, Carcano e Bezzi, il più sobrio e casto ammiratore della natura, con colori di squisita finezza, con soggetti poetici e delicati apprezzabili tanto nello studio, ma che si perdono nella fanfara di certi colori gialli, rossi e blu. Prati espone una bella uva e quadri di genere di grande merito”. Sempre nello stesso anno partecipa all’Esposizione di Firenze con “All’ovile”, “Alla mia vecchietta” ed “Evviva!”. Nasce il terzo figlio Guido (1884 – 1967).
Nel 1885 espone “Timore” (n. 11) all’Esposizione di Brera a Milano, definito per la tecnica dal critico Luigi Chirtani sul “Corriere della sera” del 2 ottobre 1885: “…La più grande bizzarria di un grande ingegno di pittore”. Due ragazze in un ambiente esterno indefinito, dopo aver letto una lettera, rivolgono lo sguardo una a destra e l’altra a sinistra nel timore di essere viste. La pittura di Prati in questo dipinto diventa meno precisa rispetto a quella degli anni precedenti, più sfumata con colori meno accentuati e meno brillanti. A fine settembre “L’Italia” pubblica una recensione su “Timore”: “Un quadro da indovinarsi, pel modo strano con cui è dipinto, per l’incerto che vi domina è il Timore di Eugenio Prati, pittore che un tempo finiva i suoi lavori con una cura così minuziosa da riuscire esagerata. I suoi colleghi in arte lo avevano battezzato quello del baule, perché alcuni anni or sono espose un quadro (Divorzio) nel quale era appunto riprodotto un baule di cui si contavano ad uno ad uno i peli della pelle ond’era coperto. Quest’anno il Prati è saltato nell’eccesso opposto col suo Timore”. L’opera è stata per molti anni di proprietà del pittore Angelico Dallabrida (1874-1959), avuta forse in dono dal suo amico e maestro Eugenio. Durante la Prima Guerra Mondiale il braccio destro della ragazza seduta è stato lesionato dal fuoco nell’incendio dell’abitazione di Dallabrida a Caldonazzo ed il dipinto è stato in seguito restaurato dallo stesso in modo non perfetto.
Nel 1885 realizza anche “Vezzo di coralli” (n. 12) che ha come protagonista una giovane ragazza che si trova di fronte all’abside della chiesa di Agnedo e alle case del proprio paese, tra cui si scorge anche la casa di Ersilia e di Eugenio, illuminate dal sole, mentre porge nella penombra lo sguardo su una collana di coralli tenuta sulla mano destra, probabilmente appena regalata.
Il 25 aprile 1886 la Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano inaugura la sua nuova sede e, alla mostra organizzata per l’occasione, Prati espone “Tempesta a ciel sereno” del 1886 e “Uomo che piange è preso”, acquistato per 500 lire dalla Società per andare in dono ad uno dei soci sorteggiato a sorte.
L’opera “Tempesta a ciel sereno” (n. 13) riproduce il dialogo tra due giovani fanciulli seduti su una scalinata interrotto improvvisamente dall’arrivo di un’anziana signora. Quest’ultima, protesa in avanti sferzando un rametto di un albero, richiama concitatamente il giovane con l’intento di allontanarlo dalla ragazza che è impegnata a filare la lana all’arcolaio. La vecchietta decide di interrompere la conversazione, sia perchè è motivo di distrazione per la giovane che sta svolgendo le sue mansioni quotidiane, sia perché all’epoca era sconveniente che una donna non sposata trascorresse del tempo sola con un ragazzo. Questo dipinto pertanto descrive un altro interessante spaccato di vita quotidiana del tempo rappresentando, come molte altre opere di Eugenio, una fonte insuperabile di informazioni sugli usi e costumi trentini dell’epoca.
Dell’opera “Uomo che piange è preso”, rimane il bozzetto preparatorio presso la famiglia, una fotografia d’epoca (Fig. 59) ed un’eloquente descrizione di Benapiani e Barattani riportata su “Ars”, il volume di appunti critici pubblicato in occasione della mostra di cui citiamo uno stralcio: “Due innamorati, che devono avere avuto qualche ragione di bisticciarsi, seguono vicino l’uno all’altra: lei ha l’aspetto imbronciato, di malumore; lui piange e ha il volto mezzo coperto; muto testimone della piccola querelle d’amants, l’arcolaio che ha cessato i suoi giri perché la bella ragazza ha altro pel capo che il lavoro. Nell’atteggiamento dei due c’è molta naturalezza; l’espressione della collera passeggera nel viso della giovane è efficace come lo è l’atteggiamento addolorato dello spasimante avvilito. Curiosa questa maniera del Prati: a prima vista pare che si sia servito soltanto del nero fumo e poi ogni oggetto si distingue con una trasparenza miracolosa. Certo è che il Prati ha una pittura sana, positiva e un’ingenuità soavissima di temi che gli si presentano senza tregua là tra i monti natii del suo Trentino”.
Compie il ritratto di “don Giuseppe Grazioli” (Fig. 60), tutore della moglie, donato al Municipio di Trento nel 1889 e firmato e datato solo in tale occasione. Il ritratto, ora conservato presso il Museo Storico in Trento, è di grande espressività: spicca la sua barba bianca e soffice che conferisce lucentezza al volto ed i suoi occhi penetranti che trasmettono all’osservatore la gran bontà del sacerdote, descritto nella sua veste di uomo, piuttosto che di religioso.
Espone nel mese d’agosto dello stesso anno tredici dipinti ad una sua mostra personale a Levico in Valsugana in una stanza al piano terreno della Villa di Antonio Sartori ora Hotel Bellavista. Come descrive il “Raccoglitore” del 5 agosto 1886 sono presentati: “Uva”, “In Autunno”, “Nozze d’oro”, “Abbandonata”, “All’ovile”, “Verrà”, “Alla mia vecchietta”, “Evviva!”, “Sequestro”, “Ritratto di don Giuseppe Grazioli”, “Una disgrazia”, “Tempesta a ciel sereno” e “La mendicante”.
Successivamente invia tre quadri alla mostra annuale di Brera: “Abbandonata”, “Ritorno all’ovile”, “Tempesta a ciel sereno” e partecipa alle esposizioni promosse dalle Società Promotrici di Genova con “Abile” e “Traditore” e di Firenze con “Piccolo prigioniero” (seconda versione), “Per i miei poverelli”, “Per la mamma” e “Sono soldato”.
Nel 1887 espone a Venezia presso la Società promotrice di Belle Arti una piccola rassegna di tele: “Abile” (1880), “Traditore” (1883), “Il tempo è denaro” (1886), “Verga magica” (1887), “In attesa dello sposo” (1887), “Ancora un momento” (1887) e “Ritorno da Massaua” (1887).
In “Ancora un momento”, di cui esistono tre versioni di cui una incompiuta (n. 14), Prati descrive gli scherzi e i sorrisi scambiati tra due innamorati; la ragazza, seduta su una panca, nasconde dietro la schiena il cappello dell’uomo per costringerlo, come spiega il titolo, a fermarsi ancora un momento indicandogli con il dito la sedia da cui si è appena alzato. Due versioni di questo quadro ritraggono i soggetti all’interno di un’abitazione, mentre la terza è ambientata a Venezia e presenta sullo sfondo la chiesa della Salute.
Luigi Chirtani in “VI Esposizione nazionale artistica, Venezia 1887” così commenta l’opera “Ritorno da Massaua” acquistata dalla Società di Belle Arti di Venezia: “Nei monti natii quando la neve li copre ancor tutti, il tipo fiero e bruno riarso dal sole stacca dallo sfondo come un carbone caduto su d’un lenzuolo di bucato. Il bersagliere è perfetto, possiede tutta la serietà unita alla vivacità che rende tanto simpatico e popolare questo corpo” e “Abile”: “Un coscritto, dichiarato buono pel servizio militare, si licenzia dalla sua bella, vicino alla di lei casa, sulla via. Essa piange e lui s’è messo sul cappello a cencio una dozzina di penne da piumetto di bersagliere e fa un po’ il bulo”.
“Traditore”, acquistato da miss Anghel di Londra, raffigura una ragazza la quale avendo scorto il proprio fidanzato con un’altra, indignata, spezza la rocca dell’arcolaio e distoglie lo sguardo per non vederlo. Vittorio Zippel (1860-1937), editore, sindaco di Trento e senatore in “Archivio Trentino” del settembre 1907 descrive con queste parole l’opera intitolata “Traditore”: “Un altro dipinto eccellente è Traditore, eseguito ad Agnedo. Sul di questo quadro una bella e robusta contadina che tiene tra le mani l’arcolaio, un po’ nascosta dietro un cancello, scopre non molto lungi il suo damo che, credendosi non veduto, se la intende con un’altra fanciulla; questa composizione, che ha per sfondo delle bellissime case rustiche, è dipinta con squisita virtuosità di pennello e costituisce una delle più interessanti e simpatiche creazioni del Prati”.
Luigi Chirtani in “Illustrazione Italiana” del 24 luglio 1887 così commenta il dipinto “In attesa dello sposo” (Fig. 61): “Bella pagina dei costumi trentini dove trovi l’espressione delle qualità morali e della robustezza fisica delle belle montanare” e poi conclude: “Sono tutte composizioni piene di vivacità, di garbo e dipinte con una genialità di colorista affatto speciale, che fa di questo pittore un tipo dei più spiccati nella schiera dei buoni pittori italiani”.
Nello stesso anno Prati (Fig. 62) espone a Milano al palazzo della Permanente: “Sono soldato” acquistato dalla Società organizzatrice e concesso poi ad uno dei soci estratto a sorte, “Piccolo prigioniero”, “Per i miei poverelli” e a Firenze “Per la mamma” e “Tempesta a ciel sereno”.
Nel dicembre dello stesso anno, su proposta del professor Stefano Ussi, è nominato membro onorario dell’Accademia fiorentina delle Arti del Disegno per il suo dipinto “Momento propizio” del 1887.
Il noto critico d’arte Luigi Chirtani in “Illustrazione Italiana” del 13 novembre 1887 interpreta così l’opera “Il tempo è denaro” (n. 15): “Ecco una famiglia nella quale non si sciopera. È un’immagine fedele d’un interno di casa in un’alta vallata alpina del Trentino, patria del bravo pittore Prati, nostra vecchia conoscenza. Nell’Inghilterra, ove egli vende la massima parte de’ suoi quadri, questo proverà che non sono soli gli Inglesi a odiare il dolce far niente, e che il proverbio Time is money ha una traduzione italiana negli usi casalinghi dei nostri montanari. Siamo in autunno, la stagione è ancora buona, non s’è accesa la stufa, ma essa è come il ritrovo dei componenti la famiglia.
La ragazzina vi si è appollaiata sopra, senza sospettare che facilita all’artista la linea armonica della composizione. Il vecchio e l’uomo di casa sgranano il formentone; la giovine sposa, come tutte le donne dei paesi dove si portano sul capo pesi e anfore, è ritta sulla sua sedia come una regina sul trono: questa posa non è una posa né una esagerazione, ma esprime con naturalezza il sentimento austero che la madre di famiglia virtuosa, prova anche da giovane, appena dopo sposa è fatta madre e si trova alla testa d’una casa.
La vecchia, che ha cedute le cure e gode della famiglia nuova che è cosa sua, è la più allegra, e arriva anch’essa ove tutti lavorano, recando il mulinello per filare la canapa e il lino. Questo quadro ha le qualità alpine di tutte le composizioni del Prati montanaro per eccellenza: la gentilezza accoppiata alla austerità e al contegno serio”.
Nel 1887 muore di tifo il pittore realista veneziano Giacomo Favretto (1841-1887), grande amico, conosciuto all’Accademia di Venezia ed al suo funerale Prati onora l’amico trasportando sulle spalle la bara assieme ad altri uomini.
La città di Londra il 12 maggio 1888 inaugura l’Esposizione italiana di Belle Arti, organizzata da Victore Grubicy, ed Eugenio Prati vi partecipa su sua sollecitazione con “Nozze d’oro”, “Pioggia d’oro” (1888) e un altro dipinto. Vengono presentati altrettanti dipinti di grande bellezza dei migliori artisti italiani dell’epoca come “Vacca bruna all’abbeveratoio” (1887) di Giovanni Segantini, “Amore materno” (1873) e “High Life” (1876-77) di Tranquillo Cremona, “I ragazzi Troubetzkoy col cane” (1874) di Daniele Ranzoni, “Alle cucine economiche di Porta Nuova” (1886-87) di Attilio Pusterla, “Venduta!” (1884) di Angelo Morbelli.
Victore Grubicy de Dragon (1851-1920), pittore, critico e mercante, è stato un personaggio cardine per la diffusione dell’arte italiana all’estero a cavallo tra ‘800 e ‘900, soprattutto per le opere di artisti che hanno abbracciato le tecniche del divisionismo e per la divulgazione dell’arte francese, olandese e belga nel nostro paese.
Nel 1888 il suo desiderio di organizzare una mostra importante di artisti italiani all’estero si realizza con la presentazione a Londra di 54 opere dei migliori artisti italiani. Gli artisti scelti da Grubicy sono quelli più affermati nel panorama artistico di quel tempo: Giovanni Segantini, vincitore della medaglia d’oro ad Amsterdam nel 1883, Eugenio Prati, vincitore della medaglia d’argento a Nizza nel 1883, Angelo Morbelli, Attilio Pusterla, Achille Tominetti, Giuseppe Giani, Mario Quadrelli e i due maggiori esponenti della scapigliatura milanese Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni.
Come risulta dalle lettere tra Grubicy e Prati, conservate presso il Mart di Rovereto, tra i due dal 1882 nasce un rapporto commerciale e tale collaborazione è stata fondamentale per permettere la diffusione delle opere di Prati all’estero.
La prima lettera di Prati, spedita a Grubicy il 30 agosto 1882, testimonia l’inizio del rapporto commerciale tra i due: “…Quando vedrò che lei farà buoni affari anche con i miei dipinti cercherò sempre di spedirgliene di nuovi…”. L’anno successivo il 3 ottobre 1883 Prati scrive a Grubicy, che gli richiede delle opere da vendere: “…Le nozze d’oro sono ancora a Parigi. Ho conceduto dietro dimanda di far il disegno per la pubblicazione. Pure l’Abbandonata si trova colà. Mi dispiace che tanto uno che l’altro sono ormai insinuati (promessi) e per i 10 corr. Li consegneranno al palazzo dei Champs-Eliseès di Parigi; per poi inviarli a spese dell’amministrazione nel locale dell’Esposizione Internazionale di Nizza. Se mai a qualche amatore piacesse la fotografia, potrebbe acquistarlo anche all’Esposizione. Nel caso contrario tengo qualche altro quadretto con cornici a spruzzo fato da me, che il Fontana nelle sue critiche le chiama graziosissime”.
In seguito è stato proprio Gubricy a convincere Prati ad avvicinarsi alla pittura simbolista d’oltralpe; nel 1888 a Londra presenta la sua prima tela simbolista “Pioggia d’oro” (n. 16), un’opera pregna di misticismo e di spiritualità, in cui descrive la comunione tra realtà e divinità. Infatti, rappresenta una giovane donna che guarda dolcemente ed amorevolmente quello che probabilmente è il suo bambino circondata da una luce dorata. Eugenio potrebbe aver voluto rassicurarci, alla luce della sua profonda fede, su come l’uomo non sia solo al mondo ma sia sempre protetto dalla luce e dall’amore di Dio. La scala potrebbe anche rappresentare il simbolo della possibilità per il fedele di avvicinarsi gradualmente a Dio mediante una vita retta ed onesta.
Presenta “In attesa dello sposo” e “Tempo è denaro”, già segnalati dalla stampa alla mostra nazionale di Venezia del 1887, all’Esposizione Nazionale di Bologna e “Tempesta a ciel sereno” del 1886 all’Esposizione della Società di Belle Arti di Firenze.
Nello stesso anno dipinge la seconda versione di “Studio e lavoro” (n. 17) in cui rappresenta la nonna mentre lavora a maglia e controlla sul libro la lezione della nipotina; realizza anche “Inverno” (n. 18), paesaggio invernale ad Agnedo, che ha per protagonista una vedova, tutta vestita di nero che con il proprio bambino percorre mestamente una strada innevata in prossimità di Castel Ivano rappresentato sullo sfondo e “La lettera” (Fig. 63).
Soggiorna nel 1889 a Venezia per lavorare al dipinto “Primi fiori a Venezia” (n. 19). La tela, di tonalità calde, è ambientata sulle scalinate del ponte della Paglia, dove due ragazze si fermano presso un venditore per acquistare i primi fiori primaverili. Dino Bonari, nella recensione della tela, scrive nel 1955: “L’opera, che può tenersi tra le somme e fondamentali dipinte da Eugenio Prati, è “Primi Fiori”, toccato da una delicatezza così splendidamente signorile, dipinto con la bravura propria di un autentico maestro, dominato in ogni suo attimo e limite, da una perfetta coscienza del problema pittorico; è un’opera questa che sotto molti aspetti potrebbe portare le somme firme di un Favretto, di un Nono, ma ben differenziata da un gusto più dolce e affinato, così attinente alla personalità dell’autore…”.
Eugenio mentre si trova a Venezia a lavorare allo sfondo per il dipinto “Primi fiori a Venezia” scrive una lettera al fratello Giulio a Milano (lettera del 15 giugno 1889): “Ho sentito con sommo piacere dalla lettera che hai scritto al caro Dante che vieni a trovarci qui a Venezia. Certo ti farà grande impressione questa splendida città. Io continuo con lena a lavorare dietro al mio quadro. Dimani, Domenica, vado col Dante sulla riva degli Schiavoni ad ultimare lo studio pel fondo del sudetto dipinto. Ti raccomando, come ripeto, di andare qualche giorno avanti la tua partenza dal Signor Grubicy, e sollecitalo a darti l’importo che mi preme…”.
A Venezia dipinge anche altri numerosi paesaggi inediti tra cui “Tramonto sulla laguna di Venezia” (n. 20), conservato sempre in famiglia e mai esposto: sul retro della tavola si legge l’iscrizione “Eugenio Prati-Caldonazzo 26 dicembre 1942-Regalo della Zia Emilia Prati (figlia di Anacleto, fratello di Eugenio)”. In quest’opera, mettendo in pratica i suoi studi sull’uso del colore, riesce a rendere sulla tavola il movimento dell’acqua leggermente increspata dalle onde e le varie tonalità di rosa e azzurro del cielo nella suggestione di un tramonto. Su questo sfondo così realizzato si staglia una barca a vela di pescatori ormeggiata su uno scoglio.
Sempre nel 1889 partecipa a Torino al Concorso internazionale di pittura, scultura e disegno per una testa raffigurante Gesù Cristo con un originale ed espressivo carboncino su carta, inedito, dal titolo “Gesù nell’orto degli Ulivi” (n. 21). Prati descrive i momenti iniziali della passione di Gesù Cristo sul monte Getsemani a Gerusalemme mentre inginocchiato prega; un viso affranto, debilitato e coperto da gocce di sudore che si trasformano in sangue con la schiena ricurva in un’espressione di profonda sofferenza e alle spalle tre figure, appena abbozzate: i suoi discepoli. Riportiamo dei versi del Vangelo che descrivono questo episodio. Dal Vangelo secondo Luca 22, 39-46: “Gesù se ne andò, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: Pregate per non entrare in tentazione. Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà. Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi rialzatosi dalla preghiera andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.
Partecipa con “Gioco innocente” del 1889 (n. 22), insieme con altri quattro dipinti, all’Esposizione Internazionale Glaspalast di Monaco di Baviera con il numero 205 e in questa circostanza riesce a trovare un acquirente. Si tratta di un delizioso ritratto di una sorridente bambina, dal viso dai lineamenti delicati e candidi, con il suo gattino che gioca con il filo di lana, dai colori grigi e freddi ma di mirabile espressione di dolcezza. Colpisce la serenità dello sguardo compiaciuto della bimba e la delicatezza con cui regge il filo con il mignolo rivolto verso l’alto in un gesto d’ingenua aristocrazia.
Dipinge “Vecchiaia laboriosa” (n. 23), ambientato nelle caratteristiche viuzze di Agnedo, in cui ritrae un anziano che procede lentamente, sotto il peso della propria vecchiaia, spingendo la sua carriola. Spicca sullo sfondo davanti al monte Lefre una donna nelle vesti tipiche del tempo con il classico fazzolettino rosso sul collo ed un pozzo sulla sinistra inserito in una volta scolpita nella roccia.
È del 1890 circa un pregevole disegno a carboncino dal titolo “Madre con bambino” (n. 24) che rappresenta un meraviglioso studio sulla luce. Per realizzare il fascio di luce che investe il volto della giovane donna sfrutta il bianco della carta stessa mentre sfuma il carboncino per ritrarre la folta chioma riccia mossa dal vento in cui si distinguono i singoli boccoli. La madre tiene a sé il bambino di cui s’intravede solo la testina e guarda l’orizzonte avanti a sé.
Nello stesso anno dipinge “Uva con ritratto di donna” (Fig. 64), singolare tela in verticale, in cui raffigura persino una mosca tra i grappoli d’uva e la tela “Pozza di Lefre” (n. 25), ambientata sul monte Lefre in cui ritrae una giovane ragazza che volge lo sguardo verso la superficie d’acqua di uno stagno. Inserisce la figura umana nella natura senza desciverne realisticamente i singoli particolari esaltando la profonda comunione dell’uomo con la natura. Utilizza pennellate decise e a tratti graffianti per rappresentare la dinamicità della natura ed in particolare il movimento dei ciuffi d’erba e il contrasto di colore tra le varie tonalità di verde.
Espone nel 1891 con buon esito alla Prima Triennale di Brera “Uva e pesche” (n. 26), “Otello” e “Un raggio di sole” così descritto in “Esposizione Triennale di Belle Arti”: “Tenta un effetto di luce mettendo il colore schietto a macchie: e la figuretta di contadinella ne risulta assai viva”. Alla mostra degli amatori e cultori di Belle Arti di Roma presenta “Tempesta a ciel sereno” e “Girovaghi” (seconda versione del 1889) e alla mostra della Permanente di Milano quest’ultimo è acquistato dalla Società organizzatrice al prezzo di Lire 550 e dato in sorteggio ad un membro del Consiglio Provinciale di Milano (Fig. 65). L’opera rappresenta un ragazzo che suona la chitarra ed una ragazza che canta chiedendo un’offerta ad una donna seduta davanti all’arcolaio.
“Otello” (n. 27), presentato alla prima Triennale di Brera del 1891 assieme ad altre opere innovative come la “Maternità” del ferrarese Gaetano Previati e “Le due madri” di Giovanni Segantini, ha un importante valore nella vita artistica di Prati perché è da annoverare tra le sue prime opere simboliste assieme a “Pioggia d’oro”. È un omaggio a Giuseppe Verdi, raffigurato mentre, seduto al pianoforte, con una visione ispiratrice compone, alla luce di una lampada ad olio, il quarto atto del dramma lirico Otello. L’opera, tratta dalla tragedia di William Shakespeare, è stata presentata alla Scala per la prima volta nel 1887.
Nella parte alta del dipinto Prati raffigura Otello in piedi a lato del letto nuziale dove giace immobile Desdemona avvolta in candide lenzuola a dimostrazione della sua purezza. Non è perfettamente chiaro se Eugenio avesse avuto l’intenzione di rappresentare il momento precedente all’omicidio della moglie strangolata perché travolto dalla gelosia per una falsa accusa d’adulterio o quello immediatamente successivo all’uccisione. In ogni caso Prati intende alludere all’evento senza però soffermarsi su particolari cruenti e sanguinolenti dimostrando una sorta di rispetto reverenziale per la sensibilità del fruitore del dipinto.
Esegue nel 1891 “San Luigi” (Fig. 66) per la Chiesa Arcipretale di Pergine, ora in deposito a Trento da quindici anni presso il Museo Diocesano Tridentino di Trento. Questa tela è stata finora dagli studiosi del Prati erroneamente datata 1895, mentre sulla tela è dipinta in basso a sinistra la data 1891.
In inverno partecipa all’Esposizione Nazionale di Palermo con “Uva e pesche” e “Un raggio di sole”. Dipinge “Piccolo chitarrista”, graziosa e minuta opera in cui raffigura il nipote di due anni Eriberto Prati (1889-1970) mentre suona la chitarra, conservata ora in Uruguay e “Minatori”, due scalpellini che estraggono le pietre da una cava di cui si conserva una fotografia scattata dallo studio artistico G. Bendelli di Trento con il timbro “4 giugno 91”.
Alla fine di maggio del 1892, appena terminato, uno dei suoi più celebri capolavori, “Primi fiori a Venezia” è esposto nella sala maggiore del Municipio di Trento prima di essere inviato alla mostra delle celebrazioni Colombiane di Genova e da lì all’esposizione internazionale di Chicago dove, il 10 agosto 1893, è premiato con una medaglia d’oro. Partecipa alla mostra di Torino a cura della Società di Belle Arti con “Serate d’inverno in Trentino”.
Nello stesso anno presenta a Parigi alla mostra promossa dal Péladan “Rosa Mistica” del 1892, acquistato da Enrico di Borbone, e “Amore e dolore”.
Partecipa all’Esposizione cinquantenaria d’Arte Moderna di Torino con “Timore”, “Uva”, “Serate d’inverno in Trentino”, “Pastorella sul torrente Centa” (n. 28), all’Esposizione Permanente di Venezia con “Timore”, “Uva” e “Serate d’inverno in Trentino” ed infine all”Esposizione della Permanente di Milano con “Cara”.
La tela “Serate d’inverno in Trentino” (n. 29) rappresenta un intimo spaccato femminile di una famiglia che trascorre le proprie serate al lume di una lanterna, chi leggendo e chi lavorando al fuso. Quest’opera descrive come si svolgessero durante l’inverno le serate in famiglia quando le donne d’ogni età si riunivano nei pressi di una lampada ad olio in circolo sedute su sedie di legno per svolgere le loro attività serali. Una giovane ragazza, come del resto anche la nonna, fila la lana, mentre una ragazzina legge un libro probabilmente ad alta voce per essere ascoltata dalle altre.
La luce illumina i dolci visi indagando sulle espressioni assorte delle donne, sulle vesti ritratte con pennellate decise e sulla pelle matura della donna anziana su cui ricadono ciuffi di capelli bianchi. Sulla parete in penombra è appeso un quadretto che raffigura una Madonna con Bambino a dimostrazione della religiosità della famiglia. Di notevole espressione artistica è la figura centrale rappresentata di spalle: Prati riesce a rendere con maestria la torsione del capo mediante un fascio di luce che illumina la piega del collo ed un gioco d’ombre che si crea sulla nuca sgombera dai capelli raccolti sulla testa.
Nello stesso anno realizza una serie di paesaggi di Venezia come “Canal Grande”, “Canal Grande con figura”, “Canal Grande con barca o Venezia” (Fig. 67), donato dal figlio Guido Prati il 13 agosto 1848 all’avv. Gino Marzani, “Rio a Venezia con gondola” (Fig. 68), “Paesaggio di Venezia” (Fig. 69), “Sera a Venezia” (Fig. 70) e “Veduta di San Marco al tramonto”. In questo dipinto Prati dimostra la sua grande abilità nel ritrarre i riflessi dell’acqua della laguna mossa dalla brezza, nell’emozionante ora del tramonto. Prati ci presenta in “Canal grande” (n. 30) una pittura tenue rappresentando la superficie liscia e metallica dell’acqua della laguna dalle intonazioni crepuscolari diffuse dai colori azzurro, rosa, verde e madreperla capaci di trasmettere allo spettatore un alto momento di spiritualità e d’incantevole meraviglia.
“Sogno”, inedito, (n. 31) e “Sogno di Santa Cecilia” (n. 32) sono due opere simboliste simili e dedicate alla celebrazione della musica e alla sua concezione spirituale. La prima raffigura, in un’atmosfera dai colori rarefatti e caldi, una ragazza assopita in un sogno profondo in cui vede il coro angelico e due angeli che suonano rispettivamente l’arpa e l’organo, la seconda, rappresenta la Santa patrona dei musicisti.
Santa Cecilia, anche lei musicista, martire a Roma nel III sec. sotto l’Imperatore Marco Aurelio, ha ispirato più di un capolavoro artistico, tra cui “L’estasi di Santa Cecilia” del 1514 di Raffaello Sanzio, conservata a Bologna, in cui la raffigura mentre rapita dalla visione mistica vede il coro angelico, “La Santa Cecilia” di Rubens, che si può ammirare a Berlino e quella del Domenichino a Parigi. Dedicato alla Santa nel XIX sec. nasce il Movimento Ceciliano, diffuso in Italia, Germania e Francia, con l’adesione di musicisti, liturgisti allo scopo di restituire dignità alla musica liturgica che aveva perso terreno in seguito alla diffusione del melodramma e della musica popolare.
Prati raffigura l’estasi della Santa mentre a fianco di un organo, ispirata dall’Arcangelo, vede il coro angelico, un angelo intento a leggere uno spartito musicale e gli altri angeli che suonano l’arpa e le trombe in uno sfondo dai colori raffinati, tenui, sfumati ed onirici.
EUGENIO PRATI NEL TERZO PERIODO
DAL 1893 AL 1907
Nel 1893 si trasferisce con la famiglia a Trento in via Grazioli n. 3 (ora n. 11) nella casa Tomasi per permettere ai figli di ricevere un’adeguata istruzione e dove impartisce lezioni di pittura ad alcuni aristocratici trentini, come Virginia Alberti Poja, Giulia Turcati Lazzari, il marito musicista Raffaello Lazzari, l’avvocato Gino Marzani, la baronessa di Telve Maria Pia Buffa, il cavalier Antonio de Pizzini di Ala, Giuseppe Pallaver e il conte Pio Sardagna.
L’avvocato ed irredentista Gino Marzani (1878-1964) ricorda la sua partecipazione alla scuola di Eugenio Prati scrivendo queste parole in una lettera del 26 gennaio 1942: “Da quando, nel lontano 1893 imparai a conoscerlo, frequentando la Sua scuola di pittura in via Grazioli, ebbi campo di apprezzare altamente non solo la Sua Eccellente produzione artistica, ma anche il Suo animo, pieno di bontà, di delicatezza e di trasparente limpidezza”.
Nel 1894 Prati soggiorna spesso nel Palazzo del suo allievo a Villa Lagarina, ora sede della Biblioteca Comunale e ci ha lasciato come testimonianza un carboncino su carta (datato 2 aprile) della corte interna del Palazzo (Fig. 71).
Dal 1893 al 1907 entriamo nel terzo periodo della sua produzione artistica nel quale abbandona i soggetti prediletti del secondo periodo come la figura umana animata dai vari sentimenti. D’ora in poi la sua produzione perde il suo carattere verista essenzialmente psicologico e nelle sue opere si compie la completa fusione tra figura e natura proiettata verso la spiritualità che diventa la nota predominante.
In quest’ultimo periodo dipinge anche soggetti mistici, sacri, simbolici, mutando anche la stessa tecnica.
Nel 1894 ad Ala di Trento esegue “Favretto al Liston” (n. 33), a memoria dell’amico e collega Giacomo Favretto, prendendo spunto dalla seconda versione incompiuta del dipinto “Il Liston moderno” a cui Favretto stava lavorando nel 1887, anno in cui all’età di quarantasei anni muore di tifo. L’opera di straordinaria intensità con un pregevole gioco di luci ed ombre raffigura un gruppo di persone che passeggiano e stazionano nella piazza soleggiata davanti alla chiesa di San Marco; si distinguono nella parte centrale il fratello Giulio Cesare che conversa con la moglie Ersilia e il figlio Guido, mentre sulla destra Giacomo Favretto, riconoscibile dalla bombetta in testa.
L’opera, fotografata a Prabubolo di Ala mentre viene ultimata, non è mai stata esposta da Prati, ma gelosamente custodita nella propria abitazione come ricordo dell’amico; partecipa per la prima volta ad una mostra nel 1957 in occasione del cinquantenario della sua scomparsa, organizzata a Palazzo Pretorio di Trento.
Per circa sei anni dal 1892 al giugno 1898 Eugenio Prati soggiorna molto spesso ad Ala presso la famiglia del cav. Antonio de Pizzini come maestro di pittura ed amico, ospite nel palazzo seicentesco di via Santa Caterina e nella dimora estiva di Prabubolo sulle montagne di Ala. Anche dopo la morte del Pizzini, avvenuta nel giugno del 1898, Prati ha continuato le sue visite ad Ala ospite degli amici Giuseppe Pallaver e del conte Pio Sardagna. Durante il suo soggiorno in quest’amena ed ospitale città, come ci ha tramandato Guido Prati, figlio di Eugenio, dipinge ventotto opere i cui suggestivi titoli sono: “Serate d’inverno in Trentino”, “Lettura”, “Alle sorgenti dell’Ala”, “Capraia o Prime luci”, “Luci nel bosco”, “Prime luci”, “Studio e Lavoro” (terza versione), “Solitudine”, “Guardiana d’oche in Vallagarina”, “Suono dell’Angelus”, “Carè Alto”, “La voce sua soave”, “Crepuscolo ad Ala”, “Ave Maria”, “Guado o Dolce peso”, “Lezione di canto”, “Le due madri”, “Amico fedele”, “Piccolo cantiniere”, “Amor mio”, “Pecore”, “Ritratto di Antonio de Pizzini”, “Fuga in Egitto”, “Madonna dell’uva”, “Riposo in Egitto”, “Dittico d’uva nera e bianca”, “Ritratto dei baroni Carlo, Marta e Stefano de Malfatti” e “A Passo Buole”.
Durante un’escursione sulle montagne di Ala con il cav. de Pizzini, dipinge l’8 aprile 1894 dapprima un carboncino (Fig. 72), finora inedito e poi un olio dal titolo “Alle sorgenti dell’Ala”. Ci troviamo sulle piccole Dolomiti di Ala in prossimità della Val delle Perlere, dove nasce il torrente Ala. A quei tempi, considerato che l’attuale strada non era stata ancora costruita, si presume che Prati, in compagnia dei suoi allievi di pittura, sia giunto sul posto da Ronchi utilizzando “la strada dela stela”, strada di contrabbando che porta alle acque nere e poi verso il Brusà o passo Pertica.
Presso l’archivio Prati di Ivano Fracena sono conservate due fotografie scattate a Prabubolo di Ala nel 1894: una immortala Prati che dipinge “Favretto al Liston” a fianco di Antonio de Pizzini con la moglie Giuseppina Sardagna e il barone Stefano de Malfatti con le loro consorti (Fig. 73), mentre l’altra lo ritrae intento, sotto lo sguardo attento di Pizzini, a dipingere una modella per l’opera “Studio e lavoro” (terza versione); la giovane ragazza sta lavorando a maglia in un prato e sullo sfondo si riconosce la Vallagarina nei pressi di Ala ed Avio (Fig. 74).
Sempre ad Ala nel 1894 disegna come studi preparatori di “Solitudine” due carboncini su carta datati ed inediti, scoperti recentemente in Vallagarina, che dimostrano l’errata datazione dell’opera “Solitudine” degli studiosi del Prati che ritenevano fosse stata realizzata nel 1889.
Il primo, datato 12 maggio 1894, dal titolo “Studio preparatorio di Capraia e di Solitudine” (Fig. 75), rappresenta lo studio del fitto bosco di “Solitudine” nella parte sinistra con l’inserimento di una piccola pastorella che passeggia nel faggeto alle prime luci dell’alba illuminata dalla luce che filtra tra i rami ed i tronchi secolari; il secondo, invece, dal titolo “Solitudine-studio preparatorio” (Fig. 76), datato 20 maggio 1894, rappresenta lo studio della parte destra del dipinto che nell’anno successivo viene esposto alla Prima Biennale Internazionale di Venezia. Dopo gli studi preparatori esegue anche un bozzetto ad olio di piccole dimensioni conservato presso la famiglia ed in seguito il dipinto definitivo.
Nell’opera “Solitudine” (n. 34) Prati raffigura il compositore musicista Richard Wagner (1813-1883) immerso in meditazione nel faggeto, mettendo così in pratica i suoi studi sulla luce e sui raggi di sole che filtrano tra le fronde in una sinfonia di grande espressione lirica. Eugenio ebbe modo di conoscere Wagner e sua moglie Cosima in visita a Castel Ivano tra il 1882-83 e, da appassionato amante conoscitore della musica, ha voluto immortalarlo in un suo dipinto.
Molto simile è l’opera “Prime Luci” (n. ). All’alba, in cui la luce ci regala la sua melodica evoluzione cromatica, Prati con maestria rappresenta una contadinella che tiene in braccio un fascio di legna e passeggia nel faggeto alle prime luci. La luce filtra tra le fronde dei rami e tra i tronchi secolari, in una sinfonia di grande espressione lirica.
Sempre il 12 maggio 1894 esegue un altro splendido carboncino su carta dal titolo “Chiesa” (Fig. 77) dove i chiaroscuri sono usati con grande maestria in un efficace e straordinario intreccio di luci ed ombre.
Espone nel 1894 alla seconda Triennale di Brera a Milano cinque dipinti: “Alba o in campagna”, “Serate d’inverno in Trentino”, “Canzonette”, “Amore” e “Uva” e in questa occasione riesce a vendere gli ultimi tre.
Il periodico “Natura ed arte” dell’ottobre 1894 scrive: “È trentino Eugenio Prati, uno dei più originali esponenti, e del quale ognuno può rintracciare cinque dipinti che disseminati e distanti tra loro, attirano egualmente l’attenzione mentre sfuggono ad ogni descrizione per genialità di pittura attraente e sincera”.
Durante uno dei suoi soggiorni a Venezia nel 1894 dipinge “Verrà? o Mesto ritorno” (n. 35) (seconda versione) raggiungendo la massima espressione del suo romanticismo. È il dramma dell’amore e del dolore. Allo spuntar del sole nella luce soffusa della laguna di Venezia, due giovani donne siedono infreddolite in una barca, mano nella mano. In un’atmosfera impalpabile dalla nebbiolina vivono il loro dramma attendendo il ritorno dei loro innamorati pescatori, l’una assorta nei suoi pensieri, l’altra confidandosi con l’amica.
È di quest’anno il dipinto ad olio “Innocenza” (n. 36) in cui utilizza la tela senza colori per creare quell’alone di luce che illumina il dolce viso di una giovane ragazza di profilo dai capelli bruni chiari raccolti sopra la testa. Le labbra sono schiuse, di un rosso intenso e sul collo brilla una semplice collanina dai toni freddi del violetto. Ha uno sguardo ingenuamente sospeso, simbolo di purezza.
In “Marina di Trieste” (n. 37), omaggio di Prati a Trieste, quadretto di piccole dimensioni, ci presenta un paesaggio fantastico in cui cielo e mare sono rappresentati con tenui colori che rendono palpabile lo sciabordio delle acque sugli scogli.
Il 27 settembre 1894 è inaugurata la gran pala d’altare dei “Santi Cosma e Damiano” (n. 38) per la chiesa della Vela alla periferia di Trento alla presenza dell’Arcivescovo di Trento mons. Valessi che in chiesa lo abbraccia per riconoscenza. L’iniziativa parte dal curato don Dario Trentini e la spesa di 250 fiorini è sostenuta dalla famiglia Garbari di Trento. Nello stesso anno realizza le seconde versioni di “Ancora un momento” (n. 39), ambientato a Venezia, “Rosa Mistica” (n. 40) e di “Prendete!” (n. 41).
Nel 1895 partecipa, insieme al fratello Giulio Cesare, Giovanni Segantini e Bartolomeo Bezzi, alla prima Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, inaugurata il 22 aprile alla presenza dei regnanti Umberto I e Margherita di Savoia, con “Solitudine” del 1894-95, ora conservata presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto e “Prendete!”, prima versione del 1892.
Anche l’amica, la baronessa Giulia Turcati Lazzari si reca col marito a Venezia per ammirare l’Esposizione come scrive nel suo diario: “1895 – 20 aprile (Venezia): fummo accolti alla stazione dai nostri buoni amici Bezzi e Prati. Bezzi occupatissimo ci lasciò presto e Prati ci accompagnò al nostro alloggio. 21 aprile: Venne Prati a prenderci e incontrammo Isabella, la cara sposa di Bezzi. La sera pranzammo con Delleani, Carcano e Michetti. Al Florian (famoso Caffè Florian in piazza San Marco) battaglia fra Selvatico e altri artisti sul solito argomento dell’Esposizione. In casa Bezzi, simpatico appartamento d’artista. Ammirati i quadri di Lino (si tratta di B. Bezzi). Ritornati dai Giardini con Carcano, Zezzos, Bezzi, Prati e Tito”. Nello stesso anno espone all’Esposizione Permanente di Milano il dipinto “La posta del villaggio” (n. 42), conservato presso la Cassa Rurale di Rovereto, piacevole raffigurazione di un anziano postino che s’inchina davanti ad una sorridente giovane di Agnedo consegnandole una lettera.
L’opera è così descritta dal giornale “L’Alto Adige” del 7-8 gennaio 1899: “E mezzogiorno, il sole illumina pienamente le bianche muraglie delle case sulla via polverosa; nel villaggio sono tutti in casa per ripararsi dal solleone ardente. All’estremità del paese, vicino ad un cortile, tra alcuni vasi di fiori, una ragazza aspetta il passaggio del procaccia, certa che avrebbe avuto qualche lettera da rimetterle. Il vecchio portalettere, stanco dal giro fatto, è fermo innanzi a lei e dalla bisaccia aperta ha levato un piego. Ride nel consegnarglielo e lei pure ride sgranando i suoi bei denti fissando il foglio cogli occhi ardenti. Il riso che passa tra lei e il procaccia accenna forse che quella è la lettera d’amore?”
Dipinge nel 1895 “La Guardiana d’oche in Vallagarina” (n. 43), bellissimo paesaggio delle campagne di Ala con il fiume Adige e la veduta di Sabbionara sulla destra e dell’antica chiesa di San Pietro in Bosco, detta anche la chiesa di Teodolinda ed Autari, sulla sinistra.
La storia di questa chiesa è legata per tradizione al solenne incontro che sarebbe avvenuto nel 589 d.C. in questo luogo tra la principessa Teodolinda di Baviera e il re dei Longobardi Autari ed alle loro nozze che sarebbero state celebrate il 15 maggio di quel anno nel campo, detto Sardi, a poco più di 3 km a sud di San Pietro. Successivamente Teodolinda avrebbe fatto edificare la chiesetta dopo la conversione al cattolicesimo del suo popolo avvenuta agli inizi del VII sec. per opera del Papa Gregorio Magno.
Don Ettore Viola nel 1957 nel libro “Eugenio Prati pittore Ottocentista” così descrive “La Guardiana d’oche in Vallagarina”: “Incarna l’incontro del Prati con la luce, intesa come elemento costruttivo. Tutto l’incanto della elegia è affidato ad un torrente di luce, che scende tra le forre del Baldo. Rade i tetti, investe le case di Sabbionara lontana, s’adagia sulle rive opposte, imbevendo la valle di fondo di un rimbalzante pulviscolo purpureo. Dal primo piano avanzano le ombre, assorbendo l’ultimo sghembo del monte, una donna, due densi cipressi, e la chiesa millenaria di San Pietro, legata, con le prime ombre, ai fantasmi di Teodolinda, un dì ivi regina”.
Anche nel 1895 dipinge “La lettera” (n. 44), ottima rappresentazione di una ragazza intenta a leggere una lettera circondata da uve bianche e nere in cui Prati riesce a dipingere anche la trasparenza degli acini in uno sfondo dalle pennellate vaporose e dalle tonalità calde, esposto nel 1897 alla mostra internazionale Glaspalast di Monaco di Baviera. Si narra in famiglia che la modella per questo dipinto sia stata Angelina Ciola, detta Perottina che abitava nell’attuale via Roma a Caldonazzo.
Sono di quest’anno le opere “Fusettaia veneziana” (n. 45), “Castel Ivano”- bozzetto (n. 46) “Profumo di rose” (n. 47) e “Amore mio o Veneziana con bambino” (Fig. 78), inedito, dolce raffigurazione di una madre con bambino a Venezia sul Canal Grande.
Realizza nel 1896 “Cascata di rose o Serra Turcati” (n. 48), eseguita nella villa della baronessa Giulia Turcati a Sopramonte di Trento ora sede della Circoscrizione del Bondone del Comune di Trento, dove dipinge una nobildonna a fianco di una scintillante cascata di rose, bianche, rosse e rosa. Dipinge “Visione del Tiepolo” (n. 49) in cui è raffigurata la musa ispiratrice degli artisti che getta dall’alto delle rose bianche e rosa sulla tavolozza di Giovanni Battista Tiepolo (1696-1770), mentre il pittore, rapito da un’estasi, riceve l’ispirazione per le sue rappresentazioni. Il Tiepolo è stato un gran pittore ed incisore veneziano del periodo rococò, famoso per le sue ardite scenografie e visioni dai colori delicati di angeli e santi tra le nuvole, come si evince dalle opere “Abramo visitato dagli Angeli” e “Trionfo delle virtù”.
Prati, in quest’omaggio a Tiepolo, ci rappresenta un’onirica visione umana e terrena, in cui le figure perdono ogni consistenza plastica e raffigura una donna nel sogno accanto al marito che desidera la maternità. È un Tiepolo in chiave moderna che non intravede santi o angeli ma il dono divino della vita. Dinanzi a questo suo dipinto colpisce il senso di lievità che il pennello ha saputo produrre con grande abilità nelle linee soffici e nelle morbide sfumature. L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe acquista nello stesso anno la terza versione di “Nozze d’oro” (n. 50), ora conservato all’Österreichische Galerie Belvedere di Vienna.
Partecipa inoltre con i dipinti “Vecchiaia laboriosa”, “La voce sua soave” (n. 51), “Servitevi!” alla mostra indetta a Torino dalla Società Promotrice di Belle Arti, con “Primi fiori a Venezia” alla Mostra internazionale di Berlino, con “Tra il si e il no”, di cui si conserva anche uno studio preparatorio ad olio non rifinito, diverso dall’originale, ma sullo stesso tema, alla mostra di Monaco di Baviera e con “Studio e lavoro” (seconda versione) alla Festa dell’arte e dei fiori di Firenze.
Il giornale “Alto Adige” il 12 maggio 1896 così descrive quest’ultimo capolavoro: “In mezzo a un fresco frondeggio autunnale, da un muricciolo sul quale sono deposti grappoli d’uva e pesche fragranti, sporgono i busti, grandi al vero, di un giovane contadino e di una forosetta, alla quale il garzone offre un garofano rosso. La fanciulla sta “Fra il si e il no” se accettare o ricusare il gentile pegno d’amore. In questa sua bellissima tela il Prati ha splendidamente superato l’audace tentativo di ritrarre due figure illuminate per di dietro dal sole, sicché le facce rimangono in ombra e il sole circonda come di un’aureola la linea dei capelli biondi della fanciulla e il profilo del bruno giovanotto. L’espressione delle due fisionomie non potrebbe essere colta più felicemente: lui che osa porgere il fiore coll’animo allietato dalla speranza, lei col cuore teneramente fra il desiderio e il timore. Nella sua semplicità la tela offre un insieme simpatico, condotto con spontanea franchezza, con molte verità, e con quel nitido impasto di colore che fa distinguere fra mille i quadri di Eugenio Prati. Corretto il disegno, giusta l’intonazione, morbidissimi i contorni, trasparenti le tinte, indovinato perfettamente l’effetto luce”.
Sempre nello stesso anno esegue “Il Tesoretto” (n. 52): una giovane madre, affacciata sul portone di casa, guarda dolcemente il proprio neonato, tenendolo abbracciato ed avvolto in una bianca copertina in segno di protezione. Eugenio riesce a rappresentare, con estrema delicatezza e semplicità, l’amore incondizionato e la profonda adorazione che prova la madre per il figlio. La mamma guarda intensamente negli occhi il dono da lei ricevuto e dal suo sorriso traspare la felicità e la serenità che la maternità le regala ogni giorno.
Nella tela “Saluto a Dio” (n. 53), opera simbolista di grande espressività, inedita, Prati rappresenta l’inconsistenza dell’atmosfera alle prime luci dell’alba e realizza una completa fusione tra le figure e il paesaggio. All’alba, in cui la luce ci regala la sua melodica evoluzione cromatica, in una velata foschia mattutina nelle campagne di Caldonazzo, un pastore prega inginocchiandosi davanti alle proprie pecore a fianco di un capitello dedicato a Gesù Cristo. L’armonia integrale dell’opera nasce dall’evanescenza dei colori e dalla spazialità ottica e la sua spiritualità interiore è resa con grande maestria con pennellate morbide e velate e con trasparenti colori.
Nel 1897, dopo un soggiorno ad Ala presso il cavalier Antonio Pizzini, partecipa alla Terza triennale di Brera dove espone “Primi fiori a Venezia” e “Ritratto del cav. Antonio de Pizzini”.
Dipinge inoltre nel 1897 un paesaggio notturno del lago di Caldonazzo dal titolo “Riflessi lunari sul lago” (n. 54), esposto per la prima volta nel 2007 alla mostra “Caldonazzo e il lago nella pittura di Eugenio, Giulio e Romualdo Prati”. Rappresenta una delle poche opere di puro paesaggio senza figure, capolavoro di chiara impronta impressionista e simbolista, donato al suo allievo prediletto di pittura l’avv. Gino Marzani e da lui conservato fino alla morte nel 1964. Prati ritrae con grande maestria un fascio di raggi lunari che penetrando nelle nuvole si specchia con tutta la sua luminosità nell’acqua del lago, diffondendosi con una sinfonia di luci argentee e biancastre. Rappresenta mediante pennellate confuse ed evanescenti gli alberi che si stagliano nel blu-cenerino della notte su un lembo di terra che attraversa per un tratto le acque del lago e le loro ombre riflesse nell’acqua. Spicca, vicino alla riva, una ninfea di colore rosso chiaro, simbolo nella cultura occidentale di vita, di rinascita, ma anche di purezza, che grazie all’intensa luce della luna piena si è schiusa come fosse giorno.
Dal 24 giugno al 4 luglio del 1898, durante le feste vigiliane, Eugenio espone a Trento alla mostra d’Arte Antica e Moderna, organizzata presso la palestra dell’Unione ginnastica, le seguenti sette opere: “Pastorella sul torrente Centa”, “Vecchiaia laboriosa”, “Innamorata”, “Crepuscolo (ad Ala)”, “La mendicante” e due dipinti di “Frutta”.
“Tutti notevoli per la maniera originale e per l’eleganza del pennello” come scrive il prof. Vittorio Zippel nella sua recensione della mostra pubblicata in “Tridentum”. In quest’occasione furono esposte anche opere di Giovanni Segantini, Bartolomeo Bezzi, Giulio Cesare Prati, Alcide Davide Campestrini, Basilio Armani, Andrea Malfatti e della baronessa Maria Pia Buffa, dell’avvocato Gino Marzani e del musicista Raffaello Lazzari, che erano tutti e tre allievi di Eugenio Prati.
I due dipinti di “Frutta” citati dalla rivista “Tridentum” sono “Dittico d’uva nera e bianca” (n. 55) del 1898, inedito e conservato dal Comune di Avio (Trentino). Nei due dipinti racchiusi in una medesima cornice è possibile ammirare la naturalezza del multicolore aspetto dell’uva. Il critico e pittore Silvio Domenico Paoletti in un articolo del “Corriere delle Arti” del 1889 a proposito della bellezza dell’uva del Prati scrive: “…devo essere breve e devo finire non senza però farvi notare una specialità del Prati: l’uva. Ne ho visto di parecchi; ho ammirato quella superlativa fresca e succosa del Ferragutti, ma dell’uva così squisitamente vera come questa del Prati mai. Non c’è tecnica artificiosa, non c’è sistema studiato, non ricercatezza, nulla. La semplicità del vero, resa meravigliosamente senza sforzi apparenti, il vario e multiforme e multicolore aspetto dell’uva, la qualità della materia, tutto è evidente, naturale”.
Nel settembre del 1898 alla Mostra centrale italiana di Torino espone “Piccolo studioso” (Fig. 79), “Consolazione della nonna”, “Studio e lavoro” (terza versione) del 1894 e “Suono dell’Angelus” e in occasione di questo evento trova gli acquirenti per gli ultimi due dipinti.
Il “Suono dell’Angelus” (n. 56) ritrae una ragazza che prega sul calar della sera circondata da due caprette; sullo sfondo si distinguono le splendide montagne della Paganella, del ghiacciaio dell’Adamello e della Presanella. Il quadro nella suggestione del tramonto rappresenta il ritorno a casa dopo una giornata di lavoro nei campi di una giovane contadina. In una radura nelle vicinanze della sua baita, che s’intravede sulla destra all’orizzonte, in cui si scorge la luce del focolare, si ferma a pregare curva sotto il peso della gerla colma del frutto del suo lavoro. I colori sono quelli singolari dei nostri tramonti montani, nel cielo si addensano nuvole scure che incorniciano un cielo rosa-arancio nel quale si stagliano le montagne alpine dai dolci profili. Trapela l’intento di inserire la figura umana nella natura circostante in un’incantevole comunione e allo stesso tempo di ricercare un dialogo con Dio. Quest’opera è pervia di spiritualità.
Nello stesso anno espone “Mater admirabilis” (n. 57), “Presepio”, “Riposo in Egitto” alla mostra d’Arte Sacra organizzata a Torino.
Nell’anno 1898 dipinge ad Ala anche “Amico suo fedele” (Fig. 80), “Crepuscolo ad Ala” e “Madonna dell’uva” (n. 58), che raffigura, assieme alle opere precedentemente nominate, uno dei migliori soggetti sacri del Prati. In quest’opera il Bambino e Maria sono circondati dalle foglie di vite e da floridi grappoli d’uva che Eugenio dipinge con estremo realismo come era solito fare. La Madonna guarda dolcemente, tenendolo abbracciato in segno di protezione, il figlio che tiene in mano un grappolo d’uva. Sullo sfondo sono ritratte delle palme ed un albero come in “Fuga in Egitto” ad indicare che ci troviamo in Palestina o in Egitto.
Anche in “Mater admirabilis” il soggetto è Maria con Gesù Bambino poiché si può scorgere sopra la sua testa l’aureola. Il modello del bambino, come del resto nel quadro “Riposo in Egitto”, è l’ultimo dei figli di Eugenio, Guido, all’età di circa dodici anni come raccontava lo stesso Guido Prati. Gesù, affaticato e triste è seduto su un gradino ed è tenuto a sé dalla mamma che lo osserva serenamente. Le vesti sono ritratte con estrema verosimiglianza in modo da rendere perfino lo spessore dei tessuti.
All’inizio del 1898 è iniziata da Antonio de Pizzini sotto la guida del maestro Prati una grande tela dal titolo “Fuga in Egitto” (n. 59), ma a giugno il Pizzini scompare e quindi l’esecuzione viene termina dal Prati stesso.
La Pala raffigura la Sacra Famiglia in fuga per salvare Gesù dalla strage ordinata da Erode: i tre personaggi in primo piano appaiono dolci ed umani mentre alle loro spalle un asino, avvolto da un tramonto acceso ed emozionante, procede nel deserto lentamente e stanco.
Per molti anni la tela è collocata nella cappella privata di San Giuseppe della residenza estiva a Prabubolo. Durante il periodo della Prima Guerra Mondiale (1914-18), come ci riferisce Otto Tomasoni nel quotidiano “L’Adige” del 22 dicembre 1990, è stato nascosto per sottrarlo alle ruberie della guerra e poi ritrovato a Santa Margherita e restituito ai proprietari. Nel 1990 l’ing. Antonio de Pizzini ha donato l’opera alla parrocchia di San Giovanni di Ala e dopo un opportuno restauro è stata collocata nella Chiesa omonima, dove tutti possono ammirarla nella sua maestosa bellezza a destra dell’altare.
Presso il Seminario Maggiore Arcivescovile di Trento è conservato il particolare della Sacra famiglia con il titolo “Madonna con Gesù Bambino” (Fig. 81), firmato in basso a sinistra con l’acronimo “A.P.” (Antonio Pizzini) ma di stile inconfondibilmente pratiano. In effetti, Gesù Bambino appare identico al bambino ritratto in “Madonna dell’uva” e in “Madonna con bambino” incompiuto, catalogati come opere di Eugenio Prati, come pure la modella della Madonna nelle due opere risulta essere la medesima.
È presumibile, data la somiglianza con le altre opere, che Prati abbia insegnato all’allievo come eseguire il dipinto e che quest’ultimo abbia poi ultimato da solo l’esecuzione. Anche in quest’opera come nelle altre due, la Madonna dalle simili fattezze abbraccia suo figlio e lo guarda teneramente, mentre il bambino rivolge lo sguardo diritto a sé in direzione dell’osservatore.
Non si conosce purtroppo l’ubicazione del luminoso ovale su tela rappresentante il ritratto dei baroni di Ala “Carlo, Marta e Stefano de Malfatti” (da destra) in età giovanile, figli del barone Stefano Malfatti e della principessa Matilde di cui si conserva solo una fotografia, pubblicata sul quotidiano “L’Adige” l’8 novembre 1957. Carlo Malfatti successivamente diviene Ministro della Repubblica e Marta diviene contessa della Croce. L’opera inizialmente conservata nel palazzo Malfatti è stata venduta e si sono perse le tracce.
Dopo la morte del cav. Antonio de Pizzini avvenuta nel giugno del 1898, Prati ha continuato a soggiornare saltuariamente ad Ala come lo dimostrano due lettere spedite da Ala nell’agosto e nel novembre del 1898 al segretario dell’Esposizione Permanente di Milano. Nella prima cita i due dipinti “Crepuscolo ad Ala” e “Frutta o uva”: “…Essendo i quadretti ancora freschi, mi riservo di dare per intiero la vernice circa la metà del pros. settembre, quando ritornerò dall’Esposizione di Torino insieme al mio cugino l’ing. Paldrof di Levico…”. Nella seconda lettera cita il suo domicilio ad Ala e scrive: “…pregandola di voler spedire in quel modo che a Lei sembrerà il migliore, il ricavato della vendita del mio quadro “Le Scarpe della sposa” al mio indirizzo in Ala”.
Il dipinto “Presepio o Natività” (n. 60) è una delle più belle commoventi rappresentazioni della natività, in cui emerge la dolcezza della Madonna e l’incredulità di San Giuseppe che, nonostante desideri avvicinarsi con la mano al bambino, non osa farlo; è stato donato dalla famiglia nel 1925 alla parrocchia di Caldonazzo ed ivi conservato nella Chiesa di San Sisto in occasione dell’inaugurazione del busto di bronzo di Edmondo Prati dedicato ad Eugenio.
Prati gioca magistralmente con la luce che emana dal Bambino Gesù ed illumina di riflesso la Madonna e San Giuseppe.
Il giornale dell’Esposizione di Torino commenta l’opera: “Così nel quadro del Prati, sventuratamente di modeste proporzioni, la madre inginocchiata accoglie nelle braccia il bambino; l’intensità dell’affetto materno per la fragile creatura, dal visino diafano, dalla sottile peluria della testa bionda, è espressa in modo mirabile; l’elegante atteggiamento della Vergine contrasta col rude profilo di San Giuseppe, che, visto di tergo, rammenta forse troppo Otello, ed avrebbe una espressione dura, se non la raddolcisse alquanto la luce che si diffonde dal celeste neonato sulle figure che lo circondano. In questo quadro, però, maestrevolmente disegnato e colorito e vibrante di sentimento, noi cerchiamo indarno il concetto sacro; troviamo invece la più soave espressione dell’affetto di tutte le madri della terra”. Don Ettore Viola nel 1957 recensisce così il dipinto: “La santa scena della natività, è colta a lume, che emana lieve dal divino infante. Nella tranquilla e calcolata riverberazione, le sante figure hanno vivezza di grandi masse di luce di ombre, esatte nei contorni, scelte nelle forme, piene di grazia nell’estatico movimento di meraviglia, di materno amore. Il Prati ha qui espresso capacità valida di rappresentare, con pio decoro, tra tante pagine umane, anche una pagina eterna ed emotiva delle sacre Scritture”.
Alla prima Esposizione Italiana di Belle Arti di San Pietroburgo nel 1898 vende “Primi fiori a Venezia”, rientrata poi in Italia nel 1955 e nello stesso anno realizza “Ave Maria o Preghiera della sera” (n. 61).
È una scena d’intensa spiritualità ambientata di sera sotto le fronde di un grande albero secolare, nodoso e contorto. Una donna dal volto coperto siede su un pendio intenta a pregare con le mani congiunte, accanto ai rami da lei raccolti che serviranno a riscaldare le lunghe serate invernali. Nel quadro dominano i colori caldi e sfumati del tramonto uniti ai colori aranciati dell’autunno. Eugenio inserisce la figura umana nella natura e allo stesso tempo realizza una profonda comunione tra uomo, natura e divinità. La donna infatti si rivolge a Dio con sincera devozione consapevole di non essere sola al mondo.
In “Amor mio” (n. 62) del 1898, dipinto ad Ala secondo la testimonianza di Guido Prati, Eugenio riesce a rappresentare con estrema delicatezza e semplicità, l’amore incondizionato e la profonda adorazione che prova la madre per il figlio, avvolto teneramente in una coperta dipinta con morbide venature di colore. La mamma, mentre passeggia, guarda intensamente negli occhi il dono da lei ricevuto e dal suo sorriso traspare la felicità e la serenità che la maternità le regala ogni giorno. La luce colpisce la testa da dietro illuminandola e rilevando i suoi riccioli aurei. Sullo sfondo ritroviamo un territorio montano sfumato attraverso pennellate rarefatte e soffici di tinte di tonalità tenui. In questo dipinto Prati esprime il suo verismo idealizzato attraverso una luce mistica, espressione della sua anima.
Realizza “Guado o Dolce peso” così descritto dal giornale “L’Alto Adige” del 7-8 gennaio 1899: “Nel torrente Chieppena, una cosina graziosa, il cui sfondo è occupato da un mulino e da una cascatella d’acqua, che raccoltasi in una conca, forma poi un ruscelletto, si osserva una macchietta di due contadinelli che tentano di passare il torrente.
Il pittore pensò di staccarla e di farne un soggetto a parte, e di fatto ci presenta il suo Guado. Cambia lo sfondo: non più sul Chieppena ma bensì sull’Ala. Un contadinello sorregge una vispa giovinetta che si tien stretta a lui con ambe le braccia, e tenta di guadagnare il torrente. Contemplando quel quadro vengono in mente i versi dello Stecchetti
Pur mi feci coraggio e dissi: vieni
Vieni, ti porterò fra le mie braccia
Ella disse di sì, rise e i sereni
Occhi mi fisse arditamente in faccia
Le mosse, la naturalezza viva, il colorito giusto naturale di questa pittura la fanno ritenere una dei migliori fra i nuovi lavori del Prati.”
All’inizio del 1899 è organizzata ad Ala dal 6 al 15 gennaio (all’inizio era prevista per 3 giorni e poi viene prolungata) presso l’asilo d’infanzia Malfatti una mostra personale di Eugenio Prati con l’esposizione di 51 opere tra olii ed acquerelli ed inoltre disegni a penna e a carboncino. Il ricavato delle vendite ammontante a 150 fiorini viene devoluto alla Congregazione di carità di Ala per l’assistenza agli orfanelli dell’asilo.
Purtroppo non si conosce l’elenco completo delle opere esposte ma solo quelle descritte dal giornale “Alto Adige” nella cronaca del 7-8 gennaio 1899: Tempo è denaro, In attesa dello sposo, Mater Admirabilis, Riposo in Egitto, Nel torrente Chieppena, Dolce peso o Guado, Posta del Villaggio, Vecchiaia Laboriosa, La voce sua soave, La lettera, Rifiuto, Uva.
Riportiamo il testo dell’invito alla mostra:
“Ala, 28 dicembre 1898 Per gentile accondiscendenza dell’esimio Pittore Eugenio Prati, nei giorni 6, 7 e 8 del p.v. Gennaio, nella sala di questo cittadino Asilo d’infanzia Malfatti, verrà fatta una mostra composta esclusivamente di opere dell’artista sullodato e che consisterà di circa cinquanta dipinti ad olio, oltre a parecchi disegni e fotografia di quadri dello stesso autore. Il ricavato andrà a beneficio di questi pii istituti d’infanzia.
Lo scopo caritatevole della mostra, e la ben conosciuta valenzia dell’artista trentino lusingano la sottofirmata Direzione che la mostra sarà frequentata da numerosi visitatori. La Direzione del citt. Asilo d’infanzia Malfatti”. Successivamente per tutto il mese di febbraio viene oganizzata ad Arco un’altra mostra di beneficienza sempre a favore dell’Asilo d’infanzia di quella città.
Dipinge nel 1899 per l’Esposizione di Belle Arti di Como organizzata in onore del centenario della nascita di Alessandro Volta, inventore della pila, “Scintilla ellettrica o Elettricità”, (n. 63), opera simbolista. Prati in “Scintilla elettrica” ha voluto rappresentare la corrente elettrica di una pila che si diffonde dalle mani di una bellissima ragazza proiettata ad altissima velocità. Eugenio trova il modo di esprimere la vivacità del movimento con arditi cromatismi dai toni delicati e dalle tinte ariose, armonizzate nello spazio della tela. In questa circostanza presenta altri quattro lavori: “Amor mio”, “Piccolo cantiniere” conservato al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, “Guado”, “Ottobre” e “Piccolo studioso” che raffigura un bambino seduto su uno scalino appoggiato ad una parete bianca intento a leggere un gran foglio di giornale e che Eugenio Prati dona al Circolo Artistico di Como, ora conservato presso il Museo civico di Rovereto.
Con “Piccolo cantiniere” (n. 64) Prati ci trasmette il senso di ansia e di tragedia vissuti da un bambino che sta scontando una punizione nell’oscurità della cantina. Mentre solleva il lume da terra fissa angosciato i resti della brocca di terracotta, appena rotta, oggetto della sua penitenza. Il suo viso ci trasmette un senso di spavento e di sofferenza per la punizione che gli è stata inferta. I colori d’indaco, tanto cari a Prati, sulla stoffa scura dei pantaloni, producono un senso di calore e di tenera compartecipazione dell’artista al dramma della sofferenza del povero ragazzo.
“Dolce peso o Guado del torrente Centa” (n. 65), ambientato nella valle del Centa a Caldonazzo, è così descritto nel giornale “Notizie di Bolzano” del 2 giugno 1904: “Un robusto figlio delle Alpi porta il suo tesoro sopra un delizioso torrentello e combatte contro la veemenza dell’acqua per portare il suo dolce peso in sicurezza all’altra sponda”. Alle spalle dei due giovani, si scorge il molino Cieccheri che ancora oggi sorge in fondo alla valle del Centa, poco distante dal molino della famiglia Prati.
La “Strenna dell’Alto Adige” del 1900 dedica a Giovanni Segantini dopo la sua morte avvenuta il 28 settembre 1899, una commemorazione, pubblicando due litografie di Eugenio Prati disegnate appositamente per l’occasione e per sua memoria: una dal titolo “Pastori” e l’altra “Fanciullezza di Segantini”.
Nel 1900 inizia l’esecuzione del dipinto “Sacro Cuore” per la chiesa di Sopramonte di Trento, consegnato alla parrocchia nell’aprile del 1901 e “Mater admirabilis” è nuovamente premiata alla mostra internazionale di Belle Arti di Gorizia del 1900. All’Esposizione Nazionale di Verona presenta “Vecchiaia laboriosa”, “Piccolo cantiniere”, “Timore”, e “Studio e lavoro” (terza versione): la Società di Belle Arti acquista “Studio e lavoro” che è poi assegnato alla socia Antonietta Camuzzoni Panizzoni. Nello stesso anno partecipa all’Esposizione di Brera con “Consolazione della nonna” ed esegue un delicato disegno a carboncino inedito di un volto di donna (Fig. 82).
Nel 1900 per mano di un anarchico è assassinato il Re Umberto I e nello stesso anno è incoronato Re d’Italia Vittorio Emanuele III e La Regina Elena (1873-1952). Prati in onore della Regina Elena esegue il suo ritratto: una splendida tempera su tela, inedita, dallo sguardo assorto e preoccupato, circondata da uno sfondo delicato, soffuso ed evanescente dai colori rosa. In primo piano presenta delle rose vellutate, espediente che fa sì che l’osservatore sia costretto a concentrarsi sul ritratto (n. 66).
Si cimenta con gran bravura in “Fuga o Ultimi raggi” (n. 67) in cui ritrae una fanciulla dai tratti delicati che conduce il gregge di pecore al riparo portando in braccio un agnellino nel momento in cui sta scoppiando una tempesta. La scena del dramma della tempesta è realizzata mediante l’accostamento di pennellate di colore dalle tonalità del verde-acqua; qua e là la tela sembra quasi graffiata dal pennello al fine di rendere visibile la polvere sollevata e di delineare i contorni di cespugli e sterpaglie piegate dal vento.
Il cielo e il paesaggio sono realizzati con le stesse sfumature di colore e sono separati solamente da una fascia sottile dipinta con colori chiari e luminosi; attraverso l’espediente dell’accostamento di pennellate bianche e gialle suggerisce la possibilità di un miglioramento delle condizioni atmosferiche. Nel cielo Prati con la semplice sovrapposizione di pennellate di colore più scuro delinea le sembianze di nuvole scure pregne di acqua. Le vesti della donna sono spinte indietro dal forte vento che agita anche le fronde degli alberi.
Osservando il quadro si avverte una forte sensazione di pericolo imminente, ma allo stesso tempo c’è anche la consapevolezza che prima o poi la tempesta cesserà e si ristabilirà l’armonioso equilibrio tra uomo e natura. Prati, infatti, in questo periodo artistico ama inserire la figura umana nella natura, come parte integrante del creato.
Appartiene allo stesso filone artistico anche “Agnellino smarrito” (n. 68), una delle migliori produzioni di Prati in cui raffigura all’imbrunire il ritorno a casa di una pastorella, tra i rami contorti e bruni di un castagno, con in braccio un agnellino, espressione della purezza d’animo. Le delicate tonalità e l’evanescenza di colori sovrapposti degli indachi, rosa e dei bianchi contribuiscono alla realizzazione dell’armonia integrale dell’opera in un’atmosfera d’intensità sfuggente e magica.
Durante quest’anno porta a termine anche il bozzetto “Scorcio di Caldonazzo e il lago” e “Lezioni di canto” (n. 69) in cui Eugenio Prati ritrae un frate incappucciato seduto su un anfratto, mentre impartisce lezioni di canto a quattro giovani ragazzine illuminate dai raggi solari; sullo sfondo si scorge il lago di Caldonazzo, immortalato nei pressi di San Cristoforo e in lontananza il monte Pizzo e Cima Dodici innevata.
All’Esposizione Annuale di Primavera della Permanente di Milano del 1901 espone “Piccolo Studioso” e le quattro stagioni: “Primavera” (n. 70), “Estate” (n. 71), “Autunno” (n. 72) ed “Inverno” (n. 73) realizzate con la tecnica del pastello ad olio su pergamena. Sono conservati a Milano anche i quattro bozzetti inediti, pastelli ad olio di pregevole esecuzione (Fig. 83, 84, 85 e 86).
Vilma Torselli nell’articolo “La primavera nell’arte”, pubblicato nel 2005 sulla rivista Supereva, così descrive la “Primavera” di Eugenio Prati: “Raffigura la sua primavera con le sembianze delicate di una giovane donna, resa con tratti leggeri e sfumati giocati su una ridotta gamma cromatica nei toni del seppia, soffusa di luce: l’atteggiamento raccolto su pensieri a noi ignoti e lo sguardo abbassato negano l’accesso all’interiorità, che l’artista preferisce suggerire con delicata riservatezza. Misurato eppur vivo e spontaneo, il ritratto della primavera esprime il sereno equilibrio di una personalità schietta ed aperta”.
All’Esposizione annuale di Primavera della Permanente di Milano del 1902 presenta “Piccolo cantiniere”, poi donato dalla famiglia nel 1907 al Comitato per le onoranze dello scultore trentino Alessandro Vittoria. Il dipinto è ora di proprietà del Comune di Trento in deposito presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.
Partecipa anche all’Esposizione internazionale Glaspalast di Monaco di Baviera con il dipinto “La spina” acquistato da un collezionista di Amburgo e alla prima Esposizione quadriennale di Torino con “Tempesta a ciel sereno” e “Amore e dolore”.
Nella seconda versione di “La spina” (n. 74) del 1903 raffigura un giovane pastorello intento a togliere una spina conficcata nel piede di una fanciulla il cui volto è contratto in una smorfia di fastidio. La ragazza appoggia il peso del suo corpo all’indietro sul braccio leggermente piegato mentre tiene l’altro braccio dolcemente appoggiato sulle vesti della gonna. Accanto brucano le pecore descritte con dovizia di particolari come era solito fare Eugenio. All’orizzonte si stagliano le alte montagne di Cima Dodici e del Pizzo innevate che incorniciano il lago di Caldonazzo.
Nel 1902 durante una gita a Passo Buole in compagnia di Pietro Pallaver e del Conte Pio Sardagna dipinge “A Passo Buole”, uno dei pochi paesaggi puri senza figure in cui si stagliano le Pale del Cherle, teatro quattordici anni dopo della Prima Guerra Mondiale.
Sempre nel 1902 ad Ala di Trento è organizzata una mostra personale di Prati a favore degli Istituti per l’infanzia con l’esposizione di cinquantacinque opere ed a Levico un’altra mostra, organizzata dalla Lega Nazionale di Caldonazzo allo scopo di raccoglere fondi. Si segnala inoltre un delicato olio su tavola “Scorcio di Ospedaletto” (Fig. 87), una veduta di una viuzza con le caratteristiche case in pietra e i balconi e le soffitte di legno.
Nel 1903 all’Hotel di Caldonazzo (Fig. 88) è organizzata una mostra degli artisti Prati: Eugenio, Giulio Cesare, Romualdo e dei giovani gemelli Edmondo ed Eriberto. I lavori esposti sono eseguiti in gran parte da Eugenio Prati: “Bacio fatale”, “Dolce peso” (Guado), “In su la sera”, “Rosa dell’amore”, “Amor mio”, “Le prime rose a Venezia”, “Piccola vivandiera”, “Uva”, “Ritratti” e “Divino amore”; Giulio espone “Rose”, “Mattino” e “Tramonto”, Romualdo, pur non essendo presente, partecipa con due opere “Rose” e “Ritratto a carbone” ed i quattordicenni Edmondo ed Eriberto con alcuni squisiti bozzetti di creta.
Nel 1903 presenta all’Esposizione Glaspalast di Monaco di Baviera l’opera “Poesia della montagna”(n. 75), segnalata tra le migliori dell’ultimo periodo, raffigurante una contadinella in ginocchio su un prato di Caldonazzo, colta in un momento di preghiera con la testa abbassata e avvolta da un fazzoletto bianco e le mani conserte appoggiate sul grembiule; di fianco una pecora con il suo agnellino, simbolo della purezza d’animo e sullo sfondo il campanile di Caldonazzo e il lago. Si narra tuttora a Caldonazzo che la modella di Prati sia stata Elodia Ciola. Prati in quest’opera simbolista riesce perfettamente a realizzare la completa fusione tra natura e figura umana trasmettendo una sublime spiritualità. L’opera, venduta nel 1924 dal figlio Angelico Prati al Comune di Trento, è ora in deposito al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto ed è stata esposta recentemente dal 14 luglio al 19 agosto 2007 all’Esposizione di Caldonazzo dal titolo “Caldonazzo e il lago nella pittura di Eugenio, Giulio e Romualdo Prati” (Fig. 109 e 110).
Gabriella Belli, direttrice del Museo d’arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, scrive nel 1991 sul retro della tavola dedicata all’opera “Poesia della montagna” nella raccolta “Capolavori d’arte del Trentino” in omaggio con il quotidiano “Alto Adige”: “Fu dipinto da Prati all’inizio del ‘900 e rivela una sentita adesione alla linea del simbolismo mitteleuropeo che, proprio in quel torno di tempo, andava forgiando il gusto e lo stile di gran parte della cultura figurativa del Trentino. Il tema cosiddetto di genere che caratterizza quasi tutta la produzione di Prati, ricco di motivi ispirati alla vita quotidiana, trova in questo quadro una nuova dimensione narrativa, grazie all’evocazione di semplici simbologie che danno il senso pieno della profonda corrispondenza tra l’uomo e la natura, tema questo caro alla migliore pittura europea della fine ‘800”. In questa occasione l’opera viene pubblicata erroneamente al contrario in quanto è stato invertito il verso della diapositiva.
In una lettera di Eugenio Prati inviata al farmacista di Caldonazzo Damiano Graziadei nell’estate del 1903 da Sopramonte e conservata presso l’Archivio Eugenio Prati di Trento, così descrive il poetico paesaggio visto dal monte Bondone durante un suo soggiorno a Sopramonte presso la baronessa Giulia Turcati Lazzari: “Lavoro sempre, come avrete sentito dal Ciro (Prati), ho trattato tre soggetti, “La spina” che mancano poche pennellate, e che voi conoscete, “Le armonie della foresta” anche questo è molto avanzato, così puro, “Il suono della campana” che come effetto credo sia dei tre il migliore. Che volete anche in questo ameno soggiorno si viene ispirati. Sfido io a non esser ispirati coll’ammirare quell’incantevole colosso che è il Carè Alto e la gigantesca Presanella tutta avvinghiata di catene e coperta dall’eterno candido lenzuolo. Anche la selva dei pini e dei larici e fagi è un incanto specialmente col splendor della luna che fa rammentar l’estasi dei canti poetici dell’infelice Leopardi”.
Nel 1903 esegue anche una china in due esemplari dal titolo “No o rifiuto amoroso” (n. 76), splendida opera eseguita mediante l’accostamento di trattini l’uno accanto all’altro allo scopo di realizzare uno stupendo gioco di luci ed ombre. La luce colpisce il volto della giovane donna che si ritrae dal ragazzo rifiutandolo con estremo garbo e pudore esaltando i suoi tratti delicati e gentili. I contorni sono sfumati ed evanescenti e la luce che sfiora il viso della fanciulla le conferisce un’espressione di estrema tenerezza e benevolenza. Quest’opera è un meraviglioso ritratto d’umanità e dolcezza. Sullo sfondo intravediamo una finestra aperta verso un paesaggio brullo appena abbozzato eseguito con la sovrapposizione di chiari e scuri.
Nel corso dello stesso anno realizza anche due litografie: la prima celebra le gesta gloriose dei caduti italiani in Eritrea nella disastrosa “Battaglia di Amba Alagi” del 7 dicembre 1895, in cui trova la morte anche il comandante italiano maggiore Toselli, pubblicata su Strenna dell’Alto Adige, la seconda ritrae il “Carnevale”, stampata per il cartellone del veglione al Teatro Sociale della Lega Nazionale di Trento di quell’anno. Inoltre partecipa all’Esposizione Internazionale di Vienna dove vince una medaglia di bronzo per un’arnia innovativa di sua invenzione.
Eugenio Prati molto spesso mette a disposizione i suoi disegni o dipinti per manifestazioni di beneficenza sia a Trento, che a Caldonazzo. Riportiamo un passaggio di una sua lettera inviata nell’estate del 1903 al suo amico farmacista di Caldonazzo Damiano Graziadei in cui esprime il suo desiderio di devolvere i proventi della vendita di un suo dipinto per il restauro della Torre dei Sicconi poi distrutta dagli austriaci nel 1915: “Sentii con grande piacere che andò così bene, il giorno di S. Sisto, col vaso della fortuna a beneficio dei nostri Pompieri, e che il mio disegno attirò una gara per vincerlo. Non mi aspettavo certo sì felice risultato. Mi proposi e fui ispirato di trattare un soggetto d’occasione adatto per interessare di più il pubblico. Ricevetti due belle riproduzioni in platino, e fui assai contento della riuscita. Il signor maestro Gasperi ebbe tutta la premura col spedirmele prontamente. Mi scrive il caro Ciro (Prati) che la esposizione è frequentata, speriamo che porti qualche soddisfacente vantaggio anche per l’abbellimento. Desidererei che le incessive spese venissero prima di tutto fatte per assistenziare ben bene la torre (dei Sicconi), e di andare subito d’accordo col Signor Conte Trapp”.
Nel 1904 esegue “Cristo e la Maddalena” (n. 77), affascinante dipinto della deposizione dalla croce di Gesù Cristo, conservato presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.
Rappresenta i momenti successivi alla morte di Cristo in cui egli giace avvolto da bianche vesti, sinonimo di purezza, accanto alla Maddalena che gli bacia i piedi. Dominano i toni dell’ocra e del giallo e la luce irrompe nella scena simbolo di un’entità superiore. La donna si sporge in avanti appoggiando il peso del suo corpo su un braccio e cingendo con l’altro i piedi di Cristo in un gesto di profondo amore e devozione. I capelli fluenti sono mossi dal vento all’indietro e sul viso si scorge l’espressione seria e greve di chi ha compreso il significato del momento. Nello stesso anno disegna anche il carboncino “La vidi sfolgorante” (n. 78).
Nel 1905 in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Società Filarmonica in via Verdi a Trento dona alla Società il “Ritratto di Wolfang Amedeus Mozart” (Fig. 89), esposto nel 2006 a Riva del Garda in occasione del duecentenario della scomparsa di Mozart e che ancora oggi è possibile ammirare in una delle sale della Filarmonica. Nello stesso anno dipinge “Ottobre” (n. 79), tela ambientata nelle campagne paludose di Caldonazzo in cui ritrae i caratteristici lavori autunnali della terra e il ritratto della pronipote Pia Prati. Presso la famiglia è conservata una fotografia del 1965 (Fig. 90) in cui Pia Prati è immortalata a fianco del suo ritratto eseguito da Eugenio. Sul retro è scritto di proprio pugno :”Dopo 60 anni 1905-1965. Per essere ricordata dai miei cari, con tutto il mio affetto. Mamma. 20.X. 65″.
Eugenio dal 1905 fino alla morte vive separato dalla moglie Ersilia, come raccontava la nipote Pia Prati e risiede a Caldonazzo al molino Prati presso il fratello Giulio. Molto spesso si reca a pranzo dal cugino Giuseppe e dalla moglie Angelina Perini in via Roma, dove aveva uno studio di pittura come risulta anche da una sua lettera inviata alla sorella Luigia a novembre del 1906: “Vi raccomando di mandarmi le scarpe che ho nello studio dal Beppi” e per sdebitarsi promette di eseguire il ritratto delle figlie Pia e Bianca Prati.
Il ritratto di Pia Prati (n. 80) rappresenta un dipinto d’estrema bellezza e raffinatezza compiuto quando la nipote aveva diciotto anni. La graziosa ragazza posa di profilo con i capelli raccolti che le coprono le orecchie e lo sguardo fiero e determinato rivolto verso l’alto. Fa da contorno alle sue spalle un roseto di rose bianche tra cui ne spicca una di colore rosa che riprende il colore intenso delle labbra e delle gote.
Pia Prati, pro nipote di Eugenio Prati e figlia di Giuseppe Prati ed Angelina Perini (1854-1916) di Mattarello di Trento, nasce a Caldonazzo il 6 ottobre 1887 e il 10 febbraio 1919 sposa Mario Benedetto Prati, figlio di Benedetto, fratello di Eugenio. In seguito mette alla luce cinque figli: Beppino (morto a dieci mesi d’età), Bianca (1920), Giuseppe (1922), Nereide (1923) e Mirko (1925), ancora viventi, e muore all’età di ottantanove anni a Pergine Valsugana il 30 novembre 1976.
Il padre Giuseppe Prati (1851-1931), cugino diretto di Eugenio, sindaco di Caldonazzo per tre mandati, proprietario di un negozio e di un magazzino all’ingrosso d’alimentari e di una fabbrica di salumi, è stato presidente della Lega Nazionale di Caldonazzo, mentre lei svolgeva l’incarico di segretaria.
Con lo scoppio della guerra con l’Italia Pia Prati con l’accusa d’essere irredentista, rea di patriottiche attività e politicamente pericolosa, è rinchiusa nel campo di concentramento di Katzenau (Fig. 91) come internato politico assieme al padre Giuseppe, alla madre Angelina, alla sorella Bianca, alle pro cugine Cesira ed Adina ed alla zia Maria Floriani Prati, vedova di Lorenzo Prati, giudice a Borgo Valsugana con la figlia Ida (1885-1929), pittrice ed allieva di Eugenio Prati (Fig. 13).
Pia Prati in un’intervista rilasciata al quotidiano “Alto Adige” nel 1970, all’età di ottantre anni, ricorda la sua partenza da Caldonazzo: “Il 3 giugno del 1915 il capo posto della gendarmeria ci fece presente che dovevamo lasciare il paese e partire per Innsbruck. Lasciammo il negozio e la casa. Nel magazzino avevamo tra l’altro, lo ricordo bene, 60 forme di formaggio e 25 ettolitri di vino, ma dovemmo lasciare tutto e partire”.
A Katzenau vede morire dapprima la madre Angelina il 24 settembre 1916 e poi la sorella Bianca (Fig. 92) all’età di ventisei anni per l’influenza “spagnola” all’ospedale di Kematen in Austria il 1 novembre 1918, proprio tre giorni prima della fine della guerra quando già vede avvicinarsi il sospirato giorno del ritorno a Caldonazzo. “Eravamo a Trento il 4 novembre 1918. Me lo ricordo bene quel giorno, l’animazione che c’era in giro, la bandiera sul Castello del Buonconsiglio, la gioia per il ritorno, e l’amarezza di vedere tanta distruzione, tanta miseria, tante rovine. A casa tornammo solo io e mio padre”, conclude così la sua intervista del 4 novembre 1970, pubblicata sul quotidiano “Alto Adige” di Trento.
La sorella Bianca Prati (1892-1918), immortalata in un ritratto (1913) dipinto da Romualdo Prati, ci ha trasmesso un commovente diario (conservato da Mirko, figlio di Pia Prati) che ricorda i dolorosi e travagliati anni della sua segregazione assieme alla famiglia nel Lager di Katzenau dal 1916 al 1917. Ci sembra indicativo riportare una frase del suo diario che evidenzia quanta fame abbiano patito i 1734 internati politici trentini rinchiusi a Katzenau: “Se tu avessi veduto quanti poveri chiedevano da mangiare, facevano pietà a dover il più delle volte un rifiuto, più volte ho veduto levare la pelle delle patate dalle cassette delle immondizie oppure rosicchiare delle ossa”.
La città di Milano per l’inaugurazione del nuovo valico del Sempione organizza nel 1906 un’importante Esposizione internazionale di Belle Arti, dove Prati partecipa per l’ultima volta ad una mostra esibendo tre quadri tra cui “Poesia della montagna”, già esposto a Monaco di Baviera nel 1903, “Consumatum est”, opera simbolista-religiosa avvolta in luci tenebrose-crepuscolari, di cui si conserva anche un bozzetto (Fig. 93) e le “Zappatrici” del 1905.
Don Giulio Tomasini descrive “Consumatum est o Calvario” (n. 81) come una “…scena quasi apocalittica velata nella foschia e nella tenebra dei prodigiosi avvenimenti della morte del Redentore, dove campeggia il gruppo doloroso di Maria e di Giovanni davanti alle croci di cui si scorgono solo le basi e nel fondo le sagome sfumate e sfocate dei soldati che trasportano gli strumenti del supplizio”.
Lo stesso Eugenio ne fa cenno in una lettera inviata alla sorella Luigia il 5 luglio 1906: “Cara Gigia, dimani se il tempo resta bello, partirò da Trento per Caldonazzo, senza il bagaglio. Porterò meco la pura cassettina dei colori, per dare qualche tocco al mio dipinto del Calvario, avendo intenzione di mandarlo anche quello a Milano: per cui, se le strade sono buone mi recherò al mulino a piedi”.
Giuseppe Brunner nel 1907 descrive con queste parole le “Zappatrici” (Fig. 94), opera di realismo sociale in parte ispirata alle “Spigolatrici” di Jeans Francois Millet (presso l’archivio fotografico Prati si conserva una foto originale d’epoca), ambientata nelle campagne di Caldonazzo, rubata nel 1916 a Padova alla figlia Raffaella durante l’esodo per la Prima Guerra Mondiale: “Spontaneità e varietà di atteggiamenti e di movenze, ottimi effetti di chiaroscuro, carni morbide, rese con molta verità ed efficacia, e uno sfondo dove tutte le linee dei monti vanno sfumando perdendosi in un cielo autunnale rotto da sprazzi di luce intensa, ed un’esecuzione franca e sciolta sono pregi che fanno annoverare quest’opera fra le più pregevoli e ammirate”.
Sono di quest’anno anche altre opere come “Il molino Prati a Caldonazzo”, “Al Verde”, in due versioni entrambe incompiute di cui una è custodita presso la Biblioteca Comunale di Caldonazzo, “Le due madri”, conservata al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto e “Sorpresa spiacevole o Povere le mie rose”.
La tela “Al verde” (Fig. 95) è ambientata in un’osteria a volte a botte in via Villa a Caldonazzo dove è rappresentata una graziosa ostessa mentre prende per il bavero della camicia un giovane paesano seduto su una sedia, che si rivolge a lei sorridendo e svuotando le proprie tasche, facendo intendere di trovarsi senza denaro. Sul tavolo il corpo del reato: una brocca di vino ed un boccale mezzo vuoto, sulle pareti i classici utensili in rame dell’epoca e sul soffitto un lampadario a luce elettrica. Si narra in famiglia che i modelli per questo dipinto siano stati Angelina Ciola detta “Perottina” e Angelo Cunico.
Il dipinto simbolista “Le due madri” (n. 82), raffigura una tenera e dolce scena d’affetto, dai colori delicati e soffusi, tra una madre ed il suo bambino che tiene in braccio ed una pecora e il proprio agnellino. Eugenio realizza uno sfondo sfumato ed indefinito per mezzo di pennellate fugaci ed a tratti graffianti allo scopo di porre l’attenzione sul tema su cui intende soffermarsi: la magia e la semplicità della maternità. Come avviene in natura in cui una pecora si scambia teneramente gesti d’affetto con il suo agnellino sfiorandosi delicatamente con il muso, così una mamma dialoga dolcemente con il suo bambino mediante lo scambio di sguardi tacitamente eloquenti.
Il critico d’arte Vittore Grubicy ritiene che “Sorpresa spiacevole” (Fig. 96) sia una delle più ardite e simpatiche opere da lui lasciate e Giuseppe Brunner nel “Il Trentino” del 25 giugno 1907 afferma: “Non abbiamo parole per descrivere la bellezza singolare di quest’opera nella quale è un continuo cangiare di toni caldi e freddi, leggeri, delicati, rosei, violetti che si fondono armoniosamente e quasi impercettibili; di oggetti di cose ravvolte in una atmosfera opalina che le rende incerte, evanescenti, tutto una musica suggestiva e gradevolissima di tinte che vellicano deliziosamente le pupille”.
Citiamo un piccolo studio di paesaggio “Cima Dodici” del 1906 in cui sul bordo inferiore appare l’impronta digitale dell’artista. Il bozzetto su tavoletta realizzato con rapide pennellate di colore, fa trasparire silenzio e pace e denota l’abilità acquisita nei giochi cromatici.
A proposito di quest’opera riportiamo una poesia composta dalla classe IV A della Scuola elementare Crispi di Trento nell’anno scolastico 2002/2003 dopo la visita alla mostra dedicata ad Eugenio Prati dal titolo Cima Dodici: “Montagne, montagne, innevate montagne. Uno stagno blu intenso bagna la felicità. Il prato verde violento diffonde la gioia. Montagne, montagne fantasiose montagne. Un campo lucente come il sole ai piedi di una montagna allegra sparge uno scintillante amore. Una velata montagna di neve sembra zucchero a velo. Un praticello verde intenso si bagna in un laghetto canterino. Il cielo azzurro frizzante gioca con nuvolette amiche”.
IL CENTENARIO DELLA SCOMPARSA
DI EUGENIO PRATI 1907-2007
All’età di sessantacinque anni Eugenio Prati (Fig. 97) alla fine di febbraio trascorre ancora le sue giornate a dipingere all’aperto nella gelida valle del torrente Centa per cogliere le sfumature cromatiche del paesaggio trentino come scrive nella sua ultima lettera inviata da Caldonazzo il 28 febbraio 1907 all’amica baronessa Giulia Turcati Lazzari: “Gentilissima Giulia, ho iniziato a lavorare; le giornate cominciano a farsi miti, l’estro per dipingere mi anima sempre di più…”.
Incurante del freddo, i primi di marzo del 1907 si ammala gravemente di polmonite e l’8 marzo alle ore 8,30 del mattino si spegne a Caldonazzo lasciando incompiuto un dipinto di grandi dimensioni, pregno di sentimento, intitolato “La seconda madre” che avrebbe dovuto esporre alla mostra internazionale di Monaco di Baviera e che scomparve a Caldonazzo durante la Prima Guerra Mondiale.
Nella tela della “Seconda madre” campeggia nella notte la figura di un contadino, appena abbozzato grande al vero, intento al trasporto sulle spalle di una pecora morta seguito dalla giovane moglie che trasporta l’agnellino orfano tra le braccia.
La sua salma è deposta nel cimitero di Caldonazzo (Fig. 99) il 10 marzo ed Emanuele Longo, direttore del quotidiano “Alto Adige”, suo grande amico, legge sulla bara queste sentite parole, riportate da “Vita Trentina” del 16 marzo 1907:
“Solo un saluto a Te. Eugenio diletto, amico mio: l’ultimo saluto c’hio ti mando, lacrimando davanti alla tua salma benedetta. Non è un panegirico c’hio voglio fare su questa cara creatura, che la morte ha rapito al nostro immenso affetto. Di lui, dei suoi quadri, riflesso del suo carattere mite, sincero, modesto, hanno parlato, plaudendo, tanti autorevoli critici, hanno scritto tanti giornali.
La verità, la serenità dei suoi paesaggi, la genialità delle sue figure, l’assenza di ogni esagerazione, di ogni stramberia, d’ogni artificio, facevano di Eugenio Prati un poeta del pennello. Ma egli non era soltanto un geniale artista: era anche un’anima eletta, ingenua come quella di un fanciullo. Pareva ch’egli non credesse neppure alla esistenza di gente non buona: a lui le cattive azioni parevano impossibili, tanto erano l’onestà e la rettitudine sua”.
La sua morte desta un generale sconforto e tra tutti si cita l’articolo di “Vita Trentina” del 16 marzo 1907 diretta da Cesare Battisti: “Chi non lo conosceva a Trento? Egli era qui amato e apprezzato, non solo come artista valoroso che dava gloria alla terra nostra, ma come uomo generoso, come amico sincero di ogni buona causa. Pare a noi impossibile dover rassegnarci a non vedere più per le vie di Trento, o lungo le sponde del lago di Caldonazzo, la bonaria figura del pittore che aveva prediletto il soggiorno fra le Alpi natie. Altri dei nostri grandi avrà conquistato maggiori allori; nessuno s’era come lui guadagnato così vivo l’unanime affetto. E non era che un giusto ricambio. Poiché al pari della sua vita, tutta affetto, tutta dolce e soave poesia furono le sue tele, nelle quali così spesso rivive e splende l’immagine della patria nostra nelle sue gioie come nei suoi dolori, nel fulgore splendido della natura, come nell’asprezza della vita”.
La concittadina Giuseppina Sassudelli (1883-1925), poetessa e aderente alla Lega Nazionale di Caldonazzo scrive un’appassionata poesia per la morte di Eugenio che è pubblicata sulla rivista “Amico delle famiglie” il 16 marzo 1907.
IN MORTE DI EUGENIO PRATI
Poesia di Giuseppina Sassudelli
Perché mai la natura giuliva
Si ridesta e sorride in tal di?…
Perché l’aria è si mite e tranquilla?…
Perché il sole risplende così?…
Non piangete voi pur? Non s’oscura
L’astro diurno? Non sibila il vento
Fra montagne, colline e pianura
Come un mesto, infinito lamento?…
Io vorrei che la pioggia cadesse
In tal giorno di duolo profondo,
Io vorrei che il ciel pure piangesse
Chi fu tolto, quest’oggi, dal mondo.
Poiché è un giorno di lutto, o Trentini,
Che con oggi s’inaugura! Il Grande
Che viveva nei quadri divini,
Non è più! Via per l’aria si spande
La lugubre campana serale
Che ne segna la perdita amara.
Chi non piange in tal ora fatale?
Patrioti! Inchinate la bara !
Egli è morto! Fra breve le zolle
Chiuderanno la gelida salma;
Ei s’è spento, baciato dal sole
Che l’avvolse in fulgente ghirlanda,
E l’adusse lassù, nelle belle
Sfere immense, gloriose, incantate,
Al di là delle amate sue stelle,
A riviver le eterne giornate.
Egli è là… Sì, è pur vero; ma intanto
Da un’ambascia solenne atterrata,
Del suo funebre letto d’accanto,
L’arte, in lutto lo piange affannata.
Io pur chino lo sguardo smarrito,
Sopraffatta da un nuovo dolor,
Io pur piango, dolente, l’amico,
Venerato dall’imo del cor.
Ch’io deponga almen l’ultimo vale
Dir rispetto, d’amore, a’ suoi piè;
Ch’io gli dica:…Ahi! dal petto non sale, Che un estremo, mestissimo: Ahimè!..
Caldonazzo, 8 marzo 1907
Dall’8 al 30 giugno 1907, il Comitato presieduto dal conte Lamberto Cesarini Sforza gli dedica la prima mostra postuma (Fig. 100) presso la Società Filarmonica di Trento con l’esposizione di 55 opere:
“Alla mia vecchietta; Sequestro; Tempesta a ciel sereno; Vecchiaia laboriosa; Il tempo è denaro; In attesa dello sposo; All’ovile; Verga magica; Serata d’inverno; Ancora un momento; Ottobre; Consolazioni della nonna; Dopo la serenata; Piccolo cantiniere; Indecisione; Crepuscolo; In attesa; Sogno; Nella campagna romana; Mater Admirabilis; Riposo in Egitto; Primo amore; Pastorella; Presepio; Uva e pesche; Prendete; In campagna – Alba; Pura-Poesia della montagna; Agnellino smarrito; Uva-pesche-giardini; Ritratto presso conte Alberti; Ritratto A. Malfatti; Uva presso G. Pedrotti; Madonna presso M.o Lazzari; Cara; Fuga; Pastello presso B. Salvatori; Sorpresa spiacevole; Guado; Zappatrici; Calvario; Un raggio di sole; Ritratto proprietà E. Longo; Fate la carità proprietà E. Longo; Solitudine – Bosco; Capraia; Ave Maria; Calvario bozzetto; Amor mio; Ritratto presso conte Pizzini; Saluto a Dio; Gesù morto; Preparazione; Ritratto presso Municipio (don Giuseppe Grazioli); Ritratto”.
Il 30 agosto del 1925 a Caldonazzo in piazza Municipio è eretto un busto di bronzo (Fig. 101 e 102) alla sua memoria eseguito dal nipote Edmondo Prati (1889-1970). Nella fotografia dell’inaugurazione si nota in piedi e in primo piano il nipote Carlo Prati (con la camicia bianca) all’età di 8 anni, tutt’ora vivente e seduti da destra il padre Giulio, e gli zii Anacleto, Luigia ed Isabella. Contemporaneamente è stata organizzata una mostra dal 25 agosto all’8 settembre con la presentazione di 44 dipinti:
“Ritratto di Cristiano Chiesa; Immacolata, schizzo a matita; Ritratto di Giuseppe Ciola; Sequestro; Ritratto giovanile di Giuseppe Chiesa; Testa di arabo; Margherita di Savoia; Ritratto di Elvira Chiesa; Ritratto di monsignore G.B. Boghi; Ritratto del farmacista Graziadei; Tiepolo, schizzo a pastello; Testa di Madonna Addolorata; Testa di donna; Ritorno dalla Sagra di Santa Apollonia; Bacchetta magica; Divorzio; Ancora un momento; Uomo che piange, schizzo; Le istruzioni della nonna; La meditazione; All’ovile; Idillio; Timore; Ritorno dal lavoro; In attesa dello sposo; Guado; La pastorella; Pioggia d’oro; Frutta; Respinto, ritaglio; Solitudine; Strigno, paesaggio rustico; Levico; Lago di Lefre; La spina; Al verde; Ritratto di Teodolinda Graziadei; Ritratto di Pia Prati; Ottobre; Cristo morente; Presepio; Riposo in Egitto; Visione del Tiepolo”.
Nel 1956 Riccardo Maroni e Giorgio Wenter pubblicano una monografia dedicata ad Eugenio Prati. Il pittore e direttore dell’Istituto d’arte di Trento Bruno Colorio (1911-1997) in una lettera osserva: “Essa segna un ulteriore raggiungimento verso quella perfezione documentaria che ambienta l’azione del Prati nel clima del momento e che, per confronto con gli artisti più celebri del tempo, rende più valida ed autentica la sua fisionomia artistica”.
Anche il figlio Angelico Prati, glottologo e dialettologo, la commenta in una lettera inviata nello stesso anno al Maroni: “La monografia, che mi è molto piaciuta, trasporta il mio pensiero all’età dell’adolescenza e della mia giovinezza, quando mio padre spiegava la sua grande e bella attività di artista. Il suo lavoro, fatto in collaborazione con Giorgio Wenter, presenta ciò che di meglio si poteva fare in base ai dati, alle informazioni a sua disposizione; e lei ha ragione di essere ben soddisfatto. Per le notizie date, per i brani e i giudizi riportati, per gli accenni felici ai momenti rilevanti della vita dell’artista, per i fatti e fatterelli ad essa relativi, per i tanti particolari, il tutto ben ordinato e adornato dal notevolissimo numero delle riproduzioni, la monografia riesce assai attraente”.
Nel cinquantenario della morte dal 3 al 24 novembre 1957 a cura della Dante Alighieri è allestita una mostra antologica di 72 opere in Palazzo Pretorio a Trento:
“Autoritratto; Frutta; Caldonazzo (Piccola capraia); Tintoretto che scaccia Mario; La sorella Isabella; Ritratto baronessa Virginia Turcati; S. Adalberto (1873); Immacolata (1874); Ritratto di A. Malfatti (1871); Ritratto di mons. Boghi; Ritratto di Giulia Turco; Ritratto della sorella Luigia; Vezzo di coralli; San Marco – interno; San Marco con figure; Ritorno da Santa Apollonia; Cara; Tempesta a ciel sereno (1886); Uomo che piange è preso, bozzetto (1886); Tempo è denaro (1887); Studio e lavoro (1888); Solitudine, bozzetto (1889); Mercoledì delle ceneri; Vecchiaia laboriosa (1889); Frutta (1890); Notturno (Agnedo); Sepolcro (Padri Francescani, Borgo); Ritratto della moglie, acquerello; Ritrattino della figlia; Ritratto di don Grazioli; Canal Grande; Canal Grande, bozzetto; Canal Grande con barca, bozzetto; Innocenza; Prendete!; Amico fedele; Serate d’inverno nel Trentino; Fuga; La lettera (con uva, 1895); Val Lagarina, Guardiana d’oche; Povere le mie rose!; Indecisione; Amor mio; Pura; Mater Admirabilis; Presepio; S. Luigi; SS. Cosma e Damiano; Sacro Cuore, bozzetto; Ritratto di Giuseppe Ciola; Ritratto conte Aldo Alberti; Verrà?; Testa di donna; Marina di Trieste; Venezia; Paesanella; Vestito da sposa; Visione tra le rose; Testa di donna; Madonna dell’uva; Uva; Favretto al Liston; Le due madri; Visione di Tiepolo; Indecisione; La preghiera della sera; La seconda madre; La lezione di canto: Ritratto del dott. F. Montel: Ritratto signora Montel; Ritratto Filippo ed Ezechiele Bertoldi”.
Sono conservate numerose fotografie presso l’archivio della famiglia dell’inaugurazione (Fig. 103) e della mostra (Fig. 104). A marzo del 1958 il parroco di Caldonazzo don Ettore Viola pubblica il libro “Eugenio Prati, pittore Ottocentista” con una raccolta di 59 fotografie delle opere. Il Comune di Caldonazzo presso il Municipio dal 29 ottobre al 12 novembre 1978 organizza un’esposizione retrospettiva con 50 opere (Fig. 105):
“Vecchiaia laboriosa, olio; Canal Grande, olio; Madonna (Mater admirabilis), olio; Tempesta a ciel sereno, olio; Serate d’inverno, olio; Guardiana d’oche, olio; Ave Maria, olio; Conversazione in famiglia, olio; Lezione di canto, olio; Crepuscolo, olio; Verrà, olio; Istruzioni della nonna, olio; Castagno con figura (Agnellino smarrito), olio; Vezzo di coralli, olio; Verdi-Otello, olio; Le ceneri, olio; Ragazza bionda (Innocenza), olio; Povere le mie rose, olio; Marina di Trieste, olio; Paesaggio a Pieve Tesino (Bieno), olio; Cristo e la Maddalena, olio; Al Verde, olio; Il Presepe, olio; Rosa Mistica, olio; Amor mio, olio; Bambina con capretta (Piccola capraia a Caldonazzo), olio; Testa del Tiepolo, pastello; Ritratto S. Prati, olio; Ritratto B. Prati, olio; Ritratto R. Prati, olio; Ritratto, pastello; Ritratto, pastello; Ritratto, disegno; Ritratto, pastello; Autoritratto, pastello; Contadina con vaso, olio; Contadinella, olio; Cascate di rose, olio; Grande natura morta, olio; La lettera, olio; Natura morta, l’uva, olio; Figura, disegno; Figura, disegno; Figura, Disegno; Figura,disegno; Figura, disegno;Figura, disegno;Figura,disegno;Figura, acquerello”.
Nel 2002, dal 19 maggio al 30 giugno il Comune di Trento ne ha celebrato il 160° anniversario della nascita con una mostra a Palazzo Geremia dal titolo “La magia e la poesia del Trentino nella pittura di Eugenio Prati” organizzata e curata dallo scrivente con l’esposizione di 56 opere e la pubblicazione di un catalogo (Fig. 106 e 107):
“Dama che fuma; Amor non prende ruggine; Divorzio; Alla fontana; Uva e selvaggina; Idillio; Vezzo di coralli; Inverno, Uomo che piange è preso, bozzetto; Tempesta a del sereno; Raffaella; Ancora un momento, bozzetto; Il tempo è denaro; Studio e lavoro; Vecchiaia laboriosa; Solitudine, bozzetto; Uva e pesche; Pozza di Lefre; Posta del villaggio; Caste! Ivano, bozzetto; Serate d’inverno in Trentino; Ira; Tramonto sul lago di Caldonazzo, bozzetto; Rosa mistica, Castel Ivano; Profumo di rose; Gelosia; Innocenza; Guardiana d’oche in Vallagarina; Rovine di Selva di Levico, acquerello; Eremo di San Colombano, acquerello; Prendete; Ragazza al Verone-Indecisione; Il suono dell’Angelus; Baite di Lefre; La Portela a Trento, acquerello; Luci nel bosco; Ave Maria; Amor mio; Crepuscolo; La voce sua soave; Guado; Piccolo cantiniere; Agnellino smarrito; Lezioni di canto; Uva bianca e nera; Fuga; Perdono, china acquerellata; Cascata di rose; Ottobre; Fiori; Rustico di Coldonazzo;Ottobre,bozzetto; Sorpresa spiacevole, bozzetto; Le due madri; Cima Dodici, bozzetto”.
La Cassa Rurale di Trento gli ha dedicato il calendario del 2003 con il titolo “La donna nell’arte di Eugenio Prati” a cura dello scrivente e nel 2004 dal 25 giugno al 31 ottobre al Palazzo delle Albere di Trento nell’ambito della mostra “Il Secolo dell’Impero-Principi, artisti e borghesi tra 1815 e 1915” sono state esposte 6 opere tra cui:
“Tintoretto che scaccia Mario, Ritratto di Andrea Malfatti, Madre amorosa, Amor non prende ruggine, Divorzio e Favretto al Liston”.
Quest’anno nell’anniversario del centenario della sua scomparsa il Comune di Caldonazzo ha organizzato una serie d’eventi per celebrare il proprio concittadino come la commemorazione del Sindaco Laura Mansini e del parroco don Mario Filippi alla Messa di Suffragio presso la chiesa di San Sisto l’8 marzo 2007, una conferenza in data 9 marzo dal titolo “La figura femminile nell’arte di Eugenio Prati”, i concerti musicali del centenario del 24 luglio e del 5 agosto ed infine a cura dello scrivente, ha organizzato una mostra con l’esposizione di 53 opere presso la Magnifica Corte Trapp dal 14 luglio al 19 agosto 2007 dal titolo “Caldonazzo e il lago nella pittura di Eugenio, Giulio e Romualdo Prati” (Fig. 109, 110 e 111). Nel mese di giugno è stato pubblicato il libro “Eugenio, Giulio e Romualdo Prati-Artisti di Caldonazzo” di Alberto Pattini già alla seconda edizione. Le opere di Eugenio Prati esposte sono state le seguenti:
“Autoritratto di Eugenio Prati, 1863; Caldonazzo con piccola capraia, (1875); Tramonto sul lago di Caldonazzo, (1892); Pastorella sul torrente Centa, (1892); Capraia o Prime luci, (1894), carboncino su carta; La Lettera con uva, (1895); Tra il si e il no, (1896), bozzetto; Riflessi lunari sul lago, (1897); Il guado del Centa, (1899); Lezioni di canto, (1900); Scorcio di Caldonazzo e il lago, (1900), bozzetto, Poesia della montagna, (1903); No o Rifiuto amoroso, (1903), china su cartone; Ottobre, (1905) bozzetto; Le due madri, (1906); Il Molino Prati a Caldonazzo, (1906);Rustico di Caldonazzo, (1906)”.
Sempre in quest’anno l’Associazione Castel Ivano Incontri ha organizzato una mostra di 50 opere dal titolo “Eugenio Prati (1842-1907) – Antologica nel centenario della scomparsa” a Castel Ivano dal 24 luglio al 2 settembre con l’esposizione delle seguenti opere:
“Tintoretto scaccia Mario, 1865 circa; Garibaldi a Milazzo, 1869; Cavaliere-Sentinella notturna, 1874; Dama che fuma, 1877; Madre amorosa, 1877; Piccolo prigioniero, 1880; Abile, 1880; Alla mia vecchietta, 1881 circa; Divorzio, 1882; Alla fontana, 1883; Ritorno da Massaua 1887; Tempesta a ciel sereno, 1886 circa; Gioco innocente, 1889; Girovaghi, 1889; Menestrello, 1895 circa; La visita-Indecisione, 1895 circa; La spina, 1902 circa; Uva e selvaggina, 1890 circa; Uva, 1895 circa; Prendete!, 1894; Ragazzo con garofano, 1896 circa; Ragazza al verone-Indecisione, 1896 circa; Castel Ivano, 1895 circa; Castel Ivano, 1895 circa; Veduta di Passo Buole, 1902 circa; Ottobre, 1906 circa; Ritratto di Fortunato Montel, 1871; Ritratto di Catterina Montel, 1871; Autoritratto con berretto rosso, 1874 circa; Ritratto della baronessa Giulia Turco Turcati, 1874; Ritratto di Raffaello Lazzari, 1874 circa; Ritratto di Saverio Tamanini, 1875 circa; Ritratto di Maria Sardagna Thun, 1886 circa; Ritratto di don Giuseppe Grazioli, 1886; Interno di San Marco con figure, 1882 circa; Ancora un momento, 1886 – 1887; Ancora un momento, 1887; Ancora un momento, 1894 circa; Primi fiori a Venezia, 1889-1892; Favretto al Liston, 1893-1894 circa; Veduta di Venezia, 1892 circa; Venezia, 1900 circa; Pioggia d’oro, 1888; Otello, 1891; Madre con bambino, 1890 circa; Il suono dell’Angelus, 1898 circa; Il suono dell’Angelus, 1898 circa; Ave Maria – La preghiera della sera, 1900 circa; Madonna con bambino, 1900 circa; Cristo e la Maddalena – la deposizione, 1904 circa”.
Nello stesso periodo il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto nell’ambito della mostra “Sulle tracce di Maurice Denis-Simbolismi ai confini dell’impero asburgico”, organizzata al Palazzo delle Albere di Trento dal 23 giugno al 28 ottobre, ha esposto cinque opere simboliste di Eugenio Prati:
“Solitudine, Sogno di Santa Cecilia, Scintilla elettrica, Agnellino smarrito e Consumatum est”.
A conclusione delle celebrazioni del centenario la Cassa Rurale di Tuenno-Val di Non ha pubblicato un calendario per l’anno 2008 dedicato ad Eugenio Prati ed ha organizzato a Cles dal 15 dicembre 2007 al 13 gennaio 2008 una mostra dal titolo “Eugenio Prati – Le Emozioni del Trentino” entrambi curati dallo scrivente con l’esposizione delle seguenti 19 opere:
“Dama che fuma, 1877; Madre amorosa, 1877; Amor non prende ruggine, 1880; Alla mia vecchietta, (1881); Ritorno dalla sagra di Santa Apollonia, (1881); La Vedova, (1881), Idillio, 1884; Gioco innocente, 1889; Favretto al Liston, (1894); Prime Luci, (1894); Posta del villaggio, (1895); Guardiana d’oche in Vallagarina, (1895); Il Tesoretto, (1896); Il suono dell’Angelus, (1897); Riflessi lunari sul lago, (1897); Agnellino smarrito, (1900); Lezioni di canto, (1900); Poesia della montagna (prima versione), 1903; Le due madri, (1906)”.
27 dicembre 2007
Alberto Pattini
Estratto dal libro Eugenio Prati Poeta della spiritualità di Alberto Pattini
Diario della baronessa Giulia Turco Lazzari
Colaborazioni di Alberto Pattini
Per ricevere o dare informazioni scrivere a.pattini@libero.it