Giulio Cesare Prati – Biografia Italiano

autoritratto giovanile, olio su tela ,cm. 45 x 50, di g.c. prati

PITTORE OTTOCENTISTA

Giulio Cesare Prati, valente pittore di genere e di paesaggio, penultimo di quattordici figli, nasce a Caldonazzo in Via Case Nuove il 19 dicembre 1860 da Domenico Prati (1808-1867) geometra e amico del barone Giulio a Prato e da Lucia Garbari di nobili discendenze.

La madre era figlia di Giuseppe Garbari e di Lucia de Negri di Calavino, sorella di Gioacchino Garbari, noto per il suo patriottismo irredentista e per essere stato sindaco di Caldonazzo per molti anni, obbligato all’esilio per evitare l’arresto dopo la ritirata del gen. Giacomo Medici e delle sue truppe nell’agosto del 1866 durante la terza guerra d’indipendenza. In tenera età l’11 novembre 1867 rimane ben presto orfano di padre e il 10 aprile 1869 anche della madre.

E’ allevato nella casa-molino dalle sorelle Luigia, Isabella ed Anna come testimonia un disegno del pittore veneziano Antonio Ermolao Paoletti (1834-1912), amico di Eugenio, in cui si nota la sorella Luigia che imbocca Giulio seduto su uno sgabello. All’età di 15 anni si trasferisce a Borgo Valsugana presso gli zii Francesca Prati e Pietro Zanette, dove lavora come apprendista fino al 1880 presso un’officina artigianale, dove impara la tecnica di lavorazione del ferro battuto.

Presta servizio militare per quattro anni dal 1880 al 1884 come Landschützen (Tiratori scelti provinciali) nell’esercito austro-ungarico. Nel 1882, anno della grande alluvione che affligge il Trentino, è assegnato alle operazioni di salvataggio ed essendo in pieno inverno si ammala di una grave affezione polmonare, perciò è congedato provvisoriamente. Si reca a trascorrere la convalescenza a Villa Agnedo a casa del fratello maggiore Eugenio, artista affermato e appena sposato da tre anni con Ersilia Vasellai, e lì nasce la sua vocazione artistica.

Comincia a dipingere e preferisce il paesaggio agli interni come dimostra la cronologia approssimativa dei suoi dipinti intorno al 1882 (“Tramonto sul lago”, “Alba sul lago di Caldonazzo”, “Riflessi sul lago” e “Lavandaia”).

Da queste vedute delicate e sfumate del lago di Caldonazzo dipinte dal vero “en plein air” nelle diverse ore del giorno, dedicate al luogo che lo videro nascere e trascorrere la propria gioventù, dove lo studio della luce prelude già ad un ricerca tonale risolta in macchia, traspaiono silenzi e pace che ci trasmettono profonde emozioni di serenità e di tranquillità d’animo.

Il paesaggio è vissuto come espressione del sentimento, è la natura degli stati d’animo, quella che si coglie nella rugiada del mattino, nello scolorare della sera, è qualche cosa da guardare intensamente per catturarne l’attimo di una sensazione. E’ in queste fasi della giornata in cui la luce del giorno non è nitida, ma è più delicata e tenue, che i contorni si fanno meno marcati e la fusione figura-paesaggio è ancora più intensa. Infatti, la barca con il pescatore che si nota in mezzo al lago nei due dipinti “Alba” e “Tramonto” è completamente parte integrante del paesaggio e dell’acqua. L’acqua del lago non è una piatta rappresentazione, ma viene raffigurata in un continuo e lento fluire in una miriade sinfonica di colori diffusi e di luci riflesse.

Preferisce capire e penetrare il carattere di un paesaggio, mettere in luce le delicate sfumature cromatiche con teneri colori, far scaturire dalla natura il canto della passione e dell’amore per l’immediatezza e la semplicità.

Nel piccolo dipinto ad olio su tela “Lavandaia”, intenta a lavare i panni in riva al lago dove il torrente Mandola sfocia, Gabriella Belli nel 1983 nel “catalogo della mostra dall’Impressionismo allo Jugenstil” intravede una forma di pittura impressionista “in questo quadro, in particolare, si ritrovano, infatti, dentro il canto della migliore pittura di macchia, risolta nella equilibrata contrapposizione dei registri cromatici, intesi nel loro valore di luce e di ombra, una felice fusione tra il motivo ispiratore e gli strumenti tecnici messi in atto per la sua raffigurazione, strumenti che non scadono in mero descrittivismo ma che, anzi, sostengono pienamente l’impressione di questo angolo di lago, ritagliato nella sensazione data da un ricordo quasi incorporeo, più che supinamente riprodotto in una visione realista”.

La pittura impressionista cerca di imprimere sulla tela, intuitivamente, ciò che l’occhio effettivamente coglie: solo delle macchie luminose dai colori diversi, a seconda della lunghezza d’onda che colpisce il nervo ottico.

Le tele degli impressionisti non imitano la natura, ma sono composte di vibrazioni luminose: l’obiettivo che interessa è quanto avviene nella retina, la cosa importante è il processo percettivo, i quadri sono espressione di atmosfera, il soggetto perde ogni valore intrinseco e le sfaccettature della luce e del colore sono catturate da piccole pennellate rapide e vibranti. Giulio Prati nella sua pittura giovanile prima dell’accademia è indubbiamente un impressionista e questa produzione pittorica è senz’altro secondo noi la migliore di tutta la sua carriera artistica.

A 24 anni nel 1885, su sollecitazione del fratello, s’iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e segue i vari corsi annuali: suoi insegnanti sono Raffaele Casnedi, coadiuvato da Agostino Caironi e Ferdinando Brambilla per la scuola di disegno e figura, Luigi Bisi per la scuola di prospettiva, Gaetano Strambo per la scuola di anatomia, Claudio Bernacchi per quella di ornato, Giuseppe Mongeri per storia dell’arte, Giuseppe Mentessi per la scuola di geometria elementare, Giuseppe Bertini e Ambrogio Borghi con Francesco Barzaghi per la scuola del nudo.

Nel frattempo segue i corsi di Giuseppe Bertini (1825-1898), subentrato ben presto alla guida della scuola di pittura all’Accademia. Bertini introduce un metodo di lavoro più moderno, incoraggiando gli allievi a misurarsi anche con le poetiche del vero, metodo che rinnovò specialmente il genere del ritratto, sollecitò gli allievi a confrontarsi con altri ambiti tematici, per esempio la pittura di genere o con il paesaggio, oppure con il filone degli interni prospettici.

Di questo periodo è conservata in famiglia una fotografia che raffigura Giulio al centro assieme a sei compagni di corso dell’Accademia di Brera con i maestri Giuseppe Bertini e Giuseppe Mentessi con sullo sfondo alcuni suoi dipinti come “il vangatore”, “il tamburino”, molti ritratti e nudi.

Stringe rapporti con gli artisti legati alla Scapigliatura tra cui spicca per intelligenza e fantasia creativa Filippo Carcano (Milano, 1840-1914), pure lui allievo di Hayez ma con tutt’altro spirito, fondatore del verismo lombardo dallo spirito innovatore ed antiaccademico, Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Eugenio Gignous, Gaetano Previati, Leonardo Bazzaro e Giuseppe Mentessi, scapigliati lombardi di riconosciuta fama e frequenta i pittori Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) e il trentino Alcide Davide Campestrini (1863-1940), suoi compagni di studio.

Al terzo anno dell’Accademia nel corso di prospettiva vince nel 1887 un premio con medaglia d’argento per l’opera “La chiesa di S. Antonio di Milano” e grazie a questo premio riceve una borsa artistica di studio di 500 fiorini per tre anni dalla Giunta Provinciale Tirolese di Innsbruck per continuare gli studi a Milano.

Nel 1885 partecipa all’esposizione della Promotrice di Belle Arti di Firenze con due sue opere che sono premiate: “Il fuoco si spegne” del 1883, ora di proprietà del Comune di Trento in deposito al Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto e “Non so la lezione” di un collezionista privato.

Nel 1885 durante un suo soggiorno dal fratello Eugenio dipinge a Strigno in Valsugana la tela “Cresimanda” di proprietà del Comune di Caldonazzo e collocata nella locale Biblioteca, in cui si nota il campanile di Strigno sullo sfondo e la ragazza con la madre in costume tradizionale del Tesino che ascoltano i consigli del curato prima della cerimonia. La tela rappresenta una bella pagina della vita di paese della Valsugana e Giulio con semplicità riesce a trasmettere la profonda emozione della ragazza per l’avvenimento.

Durante il periodo accademico esegue alcuni dipinti come “Giuseppe venduto dai fratelli”, “Il vangatore”, purtroppo andato disperso, che mostra una chiara adesione di Prati a quella particolare forma di verismo sociale che in Italia aveva visto la sua nascita verso il 1880 con opere come “l’erede” di Teofilo Patini, “Il tamburino” e molti altri dipinti minori di nudi maschili e femminili in cui si intravede la scuola del tardo romanticismo letterario di Francesco Hayez e di Giuseppe Bertini.

Nel volume della Cà Granda di Milano è pubblicato un dipinto di Giulio Prati, “Ritratto di Antonio Vassalli”, olio su tela, 202 x 122 cm firmato G. Prati con iscrizione in basso Vassalli Antonio morto il 25 settembre 1870. Il ritratto copia di un originale del maestro Giuseppe Bertini, andato perduto, fu commissionato al Prati nel maggio del 1890 dal direttivo dell’Ospedale Maggiore di Milano. Il 15 luglio 1890 a conclusione dell’Accademia è premiato con la medaglia di bronzo e gli viene rilasciato un altro attestato di merito.

Tra i due fratelli pittori Eugenio e Giulio nasce un legame affettivo molto intenso e pur essendo distanti sono spesso in contatto epistolare tra di loro e ci sembra significativa riportare una lettera del 15 giugno 1889 di Eugenio Prati al fratello Giulio a Milano spedita da Venezia dove Prati sta lavorando allo sfondo per il dipinto “I primi fiori a Venezia” (medaglia d’oro all’Esposizione Mondiale di Chicago del 1893). Nella lettera sono citati il pittore e mercante d’arte Vittore Grubicy, il direttore de “L’Alto Adige” Emanuele Longo, il critico d’arte e pittore veneziano Silvio Domenico Paoletti con il padre, pure lui pittore, Antonio Paoletti e il pittore trentino Bartolomeo Bezzi.

“Ho sentito con sommo piacere dalla lettera che hai scritto al caro Dante che vieni a trovarci qui a Venezia. Certo ti farà grande impressione questa splendida città. Io continuo con lena a lavorare dietro al mio quadro. Dimani, Domenica, vado col Dante sulla riva degli Schiavoni ad ultimare lo studio pel fondo del sudetto dipinto. Ti raccomando, come ripeto, di andare qualche giorno avanti la tua partenza dal Signor Grubicy, e sollecitalo a darti l’importo che mi preme. Intanto a rivederci a Venezia. Salutami caramente l’amico Emanuele e ricevi in uno coi miei i saluti dei Signori Paoletti e dall’amico Bezzi. Stringendoti aff.te la mano ho il piacere di segnarmi tuo aff.mo fratello Eugenio Prati”.

Terminati gli studi a Brera, dal 90 al 95 il nostro pittore ebbe lo studio a Caldonazzo, nell’allora Via Nuova, nella seconda delle case Marchi a sinistra al piano terra: ancora oggi esiste l’ampia finestra della stanza aperta verso il lago.

Nell’estate del 1890, appena rientrato da Milano, esegue “Cantanti al verde” in due bozzetti su tavola e in due tele originali, di cui uno di proprietà del Comune di Trento, conservato in deposito al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto e l’altro di proprietà di un collezionista privato.

L’opera è dipinta al maso “Giamai” di Caldonazzo e rappresenta un idillio campestre con cinque pastorelli scalzi, alcuni in piedi ed altri sdraiati sopra un verde prato che cantano in allegria mentre custodiscono il proprio bestiame; sullo sfondo il lago sinuoso, il paese di Caldonazzo con il campanile, e la cerchia dei monti circostanti il lago.

Gabriella Belli, direttrice del Mart, scrive nel 1991 sul retro della tavola dedicata all’opera Cantanti al verde nella collana “Capolavori d’arte del Trentino” pubblicata dall’Alto Adige”: “l’opera ci rivela un Prati fine colorista e ottimo pittore di paesaggio. Il quadro che ricorda nell’atmosfera tersa dell’alta quota l’opera del massimo pittore trentino del XIX, Giulio Segantini, risulta di grande efficacia per la sapiente distribuzione dei volumi nell’ampio anfiteatro della verde vallata, curiosamente degradanti lungo un’ardita prospettiva diagonale. Il tema, che pure si poteva prestare ad essere interpretato secondo schemi simbolico-letterari in voga in quegli anni, è qui invece sostenuto da una vena di sincero realismo”.

Partecipa nel 1891 alla prima Esposizione Triennale di Brera, insieme al fratello Eugenio, con la tela “Tralcio d’uva”, che ebbe encomi speciali. Luigi Chirtani in “L’Illustrazione Italiana” così descrive il dipinto “L’uva di Giulio Prati, col tordo morto sotto un grappolo nero, par fatta da un olandese, e non è meno disinvolta di quella che ha più indietro il Sottocornola”.

Nel 1893 espone a maggio all’Esposizione tirolese di Innsbruck con l’opera “La vendemmiatrice – Autunno” del 1893, acquistata dal Museum Ferdinandeum di Innsbruck. Vi soggiorna anche alcuni mesi godendo di una certa notorietà e dipinge numerosi ritratti su commissione. Sempre in quell’anno dipinge su commissione del proprietario dell’Hotel Trento di Trento un quadro di grandi proporzioni (200 x 170 cm.) rappresentante “Tiziano che insegna colore a Irene di Spilimbergo” venduto successivamente ai fratelli Gontrand di Parigi. Nel 1894 dipinge “Bambino ferito”, che raffigura Edmondo Prati all’età di cinque anni, seduto su una sedia con la testa e un braccio fasciati. “Il modello sono stato io, cosa che ricordo molto bene, perché ero caduto da un albero” scrive Edmondo il 6 marzo 1969 in una lettera inviata al cugino Carlo.

Nel 1895 partecipa all’Esposizione Promotrice di Firenze e alla prima Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia insieme al fratello Eugenio, inaugurata il 22 aprile alla presenza dei regnanti Umberto I e Margherita di Savoia, con la tela “Uva e il nido” del 1895. L’esposizione ha un notevole successo con circa 224.000 visitatori e l’opera di Giulio è acquistata da un collezionista austriaco. Ora si trova a Trento presso un collezionista privato.

I quadri di grappoli d’uva, molto apprezzati commercialmente in quel periodo storico dagli amanti dell’arte, sono dipinti con grande maestria e naturalezza da Giulio Prati e possono essere considerati una sua autentica specialità: in particolare l’uva esposta a Venezia è di una semplicità unica in cui traspare un’approfondita delicatezza nella rappresentazione del multicolore aspetto dell’uva che emerge dal contrasto con la qualità della materia dello sfondo suggestivo e sfumato.

Sempre di questo periodo sono altre tele come “Il giorno dei premi”, “Alla cerca” e ritratti dei quali citiamo “Il bambino” che allora fu acquistato dal Commissario distrettuale Postinger come descrive Francesco Ambrosi nel 1894 nel libro “Scrittori e artisti del Trentino”.

Negli anni tra il 1894 e il 1896 si costruisce la ferrovia della Valsugana e nel 1895 Giulio a trentacinque anni conosce a Caldonazzo Maria Conci, sua futura moglie, figlia dell’ing. Egidio Conci che trasferitosi con la famiglia a Caldonazzo sta dirigendo i lavori del settimo lotto della ferrovia della Valsugana.

Alla fine del 1895 emigra in Brasile insieme con il nipote Romualdo, a raggiungere i fratelli emigrati Leone, Probo Stefano, Anacleto e Michelangelo, anche perché in Sud America c’erano molte possibilità lavorative per gli artisti, trascorrendo tre mesi nella città di Uruguaiana presso il fratello Michelangelo dove dipinge numerosi ritratti tra cui, su commissione del teatro di questa città, il “Ritratto del gran musicista brasiliano Carlos Gomez”.

Poco dopo si trasferisce in Argentina a Buenos Aires aprendo uno studio a Calle Florida dove da lezioni di pittura e di composizione.

Durante la sua permanenza in Argentina partecipa all’Esposizione Internazionale della Colmena Artistica a Buenos Aires nel 1897, conseguendo un premio al merito e nel 1898 vincendo il primo premio con “Dittico d’uva”. Lo stesso anno manda un’altra tela “Dittico d’uva” all’Esposizione di Torino (sezione italiani all’estero).

Nel 1898 ritorna a Caldonazzo per sposarsi il 23 aprile con Maria Antonietta Conci di Trento, studentessa di medicina che lascia gli studi per seguire il marito. Dal 24 giugno al 4 luglio del 1898 durante le feste vigiliane espone a Trento alla mostra d’Arte Antica e Moderna, organizzata presso la palestra dell’Unione ginnastica, le seguenti opere “Tiziano che insegna colore a Irene di Spilimbergo”, “Il vangatore”, “Il giorno dei premi”, “Due dipinti di uva” pregevoli per la bontà del colore come scrive il prof. Vittorio Zippel nella sua recensione della mostra pubblicata in “Tridentum”. Alla mostra furono esposte anche opere di Giulio Segantini, Bartolomeo Bezzi, Eugenio Prati, Alcide Campestrini, Basilio Armani e la baronessa Maria Pia Buffa e il musicista Raffaello Lazzari allievi di Eugenio Prati.

Ritorna nel 1899 con la moglie in Argentina a Belgrano (dal 1909 si chiama Gody Cruz), città distante dieci chilometri da Mendoza e mille da Buones Aires, come professore particolare di pittura di don Domingo Tomba (1861-1943), fratello di Antonio, re del vino e possidente di una grande azienda vitivinicola di Godoy Cruz ora di proprietà di Luis Colombo.

Mendoza e Belgrano si trovano ai piedi dell’Aconcagua (6959 m.), la montagna più alta delle Ande e d’America, ed è famosa per i suoi vigneti, per i suoi vini e per le sue cantine “bodegas”. Antonio Tomba, nato nel 1849 in Italia a Recoaro-Valdagno in provincia di Vicenza, combatte nel 1866 con Giuseppe Garibaldi nella campagna per la liberazione del Trentino, partecipando alla battaglia di Bezzecca del 21 luglio 1866 e il 25 ottobre 1867 partecipa alla battaglia di Monterotondo per la liberazione di Roma. Nel 1879 arriva in Argentina senza soldi e dopo aver fatto il panettiere, il pizzicagnolo, il fabbricante di mattonelle, l’operaio ferroviere e il vivandiere comincia ad acquisire terreni a basso costo ed apre a Belgrano nel 1884 uno stabilimento vitivinicolo contando sull’aiuto dei fratelli venuti successivamente dall’Italia e in particolare con Domingo costituisce una società che diede lavoro a centinaia di immigranti italiani.

I vigneti si moltiplicano e l’azienda si estende per chilometri nella zona d’intersezione tra i paesi di San Martin e Rivadaia fino a Belgrano (Godoy Cruz).

Antonio Tomba muore nel 1899 a cinquant’anni durante un viaggio in Italia e Domingo continua nell’opera del fratello aumentando le capacità dell’azienda acquisendo altri terreni in località El Sauce. L’attuale squadra di calcio della città che gioca nella massima divisione porta ancora il nome di Antonio Tomba.

Giulio Prati e la moglie alloggiano in una fattoria all’interno della tenuta dei Tomba e in questo periodo dipinge numerosi ritratti su commissione “Due ritratti di Antonio Tomba” del 1899, nature morte, “Uve”, “Lepre argentina”, vari paesaggi della pianura di Mendoza con la catena delle Ande come le tre “Estansie” conservate presso la famiglia e un dipinto dal titolo “Addolorata” per la tomba di Antonio Tomba, esposto inizialmente nella chiesa di Belgrano.

La tela è così descritta dal giornale “Gioconda” di Bueonos Aires del 1900 “un mare cinereo di nubi ondeggia in basso con attorcigliamenti spasmodici e a significare il dolore; e naufrago, perduto quasi nel mezzo si delinea il piccolo globo della terra; che rannicchiato sotto i piedi della Vergine, innalza lei al cielo, giglio di propiziatoria rassegnazione”.

Nel 1903 a 43 anni ritorna in Trentino a Caldonazzo con la moglie ed i tre figli nati in Argentina Giulia, Mario e Jolanda.

Giulio Prati è un pittore classico dell’uva, della frutta e in genere di tutte le nature morte, “ma nella natura morta non è facile uguagliarlo, difficile vincerlo; la fama è assodata tra componenti, le famose Uve di Zeusi che ingannarono gli uccelli la cedono a quelle del Prati, che ingannarono anche gli uomini, posto che gli uomini siano più accorti degli uccelli” come descrive l’Alto Adige del 1900.

Nel 1903 all’Hotel di Caldonazzo è organizzata una mostra degli artisti Prati: Eugenio, Giulio, Romualdo e dei giovinetti Edmondo ed Eriberto. Giulio espone “Rose”, “Mattino” e “Tramonto”, mentre i lavori esposti sono dovuti in gran parte ad Eugenio Prati “Bacio fatale”, “Dolce peso”, “In su la sera”, “Rosa dell’amore”, “Amor mio”, “Primi fiori a Venezia”, “Piccola vivandiera”, “Uva”, “Ritratti” e “Divino amore”. Romualdo, pur non essendo presente, espone due opere “Rose” e “Ritratto a carbone” e i quattordicenni Edmondo e Eriberto alcuni squisiti bozzetti di creta.

Stretto dalle condizioni economiche della famiglia e su pressione delle sorelle Luigia e Isabella, s’impegna nella conduzione economica del molino di famiglia che trasforma da artigianale ad industriale, finanziandolo personalmente con il denaro guadagnato in Sud America e con la quota dell’amico e mecenate argentino Domingo Tomba. Decidono che la proprietà venga intestata a Domingo Tomba, solo per ottenere le agevolazioni fiscali previste per chi fosse straniero e solo verso gli anni trenta il figlio Mario riacquista la quota del Tomba.

Edmondo Prati descrive il molino in una lettera inviata da Montevideo al cugino Carlo nel 1969, anno precedente la sua morte: “Il nonno Meneghin (Domenico Prati) lo aveva costruito con criterio moderno di quel tempo; aveva al piano terreno il mulino completo con tutti i suoi accessori, ed al primo piano, tre grandi stanze, con finestre alte e larghe, con i loro scuretti, un tinello ampio, una piccola sala di entrata e una vasta cucina con fornasella a legna, grande e comoda, con forno grande e buono, e un complemento di mattoni per mettere sotto la legna, un secchiaio e due grandi crassidei di rame stagnati ecc. ecc.”.

Ai primi di marzo del 1907, vede morire, il caro fratello Eugenio che, incurante del freddo, all’età di sessantacinque anni passa ancora le sue giornate a dipingere all’aperto per cogliere le sfumature cromatiche dei paesaggi trentini, si ammala gravemente di polmonite e l’8 marzo si spegne al molino lasciando incompiuta l’opera intitolata “La seconda madre” che avrebbe dovuto esporre alla mostra internazionale di Monaco di Baviera.

Giulio sporadicamente dipinge e torna ad esporre solamente nel 1910 al Salon degli artisti di Parigi con l’opera “Dittico d’uva” su sollecitazione del nipote Romualdo che viveva in quella città e che espone “Dolce far niente”.

Il 10 febbraio 1912 all’Hotel di Caldonazzo viene organizzato un gran ballo riservato solo ai soci e ai famigliari aderenti alla Lega Nazionale di Caldonazzo con lo scopo di raccogliere denaro per i soldati italiani combattenti per la conquista della Libia.

Nel gran salone viene esposto un dipinto di Giulio Prati, donato dall’artista alla Lega nazionale di Trento, che illustra l’eroismo dei soldati italiani in Libia.

La sezione della Lega di Caldonazzo viene fondata nel 1903 e rimane attiva fino al luglio 1914, anno della sua soppressione in cui contava 130 sostenitori, e vide tra i suoi iscritti oltre a Giulio molti componenti della famiglia Prati: i fratelli Eugenio, Anacleto, Benedetto e Michelangelo, il violinista e medico dott. Vittorio Prati, il cugino presidente della Lega di Caldonazzo ed ex sindaco Giuseppe Prati, classe 1851, con la moglie Angela Perini e le due figlie Pia (segretaria della lega e ritratta in un dipinto ad olio nel 1906 da Eugenio Prati) e Bianca, internate poi con il padre e la madre a Katzenau, il cugino ex sindaco Gustavo Prati che inaugura la stazione della ferrovia di Caldonazzo nell’aprile del 1896, Elia Prati, classe 1828, ex garibaldino con le due figlie Cesira ed Adina anch’esse internate a Katzenau, Clementino, Camillo, Giulio, Angelina e Annita.

Benedetto Prati, fratello di Giulio, dirige l’orchestrina della Lega che molto spesso partecipa alle serate organizzate per beneficenza come quella del 1908 all’Hotel di Caldonazzo a beneficio delle vittime del terremoto di Messina, dove si tiene anche un applaudito concerto del violinista Vittorio Prati.

Di Elia Prati detto “Stefenòl”, di cui si conserva un disegno a matita del 1862 disegnato da Eugenio Prati durante il banchetto di nozze dello zio Gioacchino Garbari con Placida Gasperi, si racconta che non uscisse mai di casa senza il suo cappello da garibaldino, il che era motivo di scandalo tra gli asburgici del paese. Si narra inoltre che assieme al cugino ex sindaco per molti anni di Caldonazzo Gioacchino Garbari, classe 1828, fratello della madre di Giulio, si fosse fatto crescere la barba alla Vittorio Emanuele II e nonostante fosse stato obbligato dagli austoungarici a tagliarla, noncurante del divieto ricevuto ben presto se la fosse fatta ricrescere.

Con lo scoppio della guerra con l’Italia Giulio deve essere rinchiuso nel campo di concentramento di Katzenau come internato politico assieme ai cugini Giuseppe e Angelina, alle nipoti Pia e Bianca, alle pronipoti Cesira ed Adina e alla cugina Maria Floriani Prati di Borgo con la figlia Ida perché irredentisti e politicamente pericolosi. Gli viene risparmiato come riconoscimento per il fatto che nell’inverno del 1914 durante un’abbondante nevicata al tramonto salva per solidarietà umana la vita di un finanziere austriaco che sta morendo per assideramento sul lato sud dei Ronchi, sopra il molino a Caldonazzo mentre stava scendendo dai Campregheri lungo una mulattiera. E’ costretto comunque al controllo della polizia che avviene ogni giorno da parte della gendarmeria austriaca dal 1914 fino alla fine della guerra.

Il 2 giugno 1915 Giulio riceve l’ordine perentorio di abbandonare entro tre giorni la casa-molino e di trasferirsi con tutta la famiglia compreso le sorelle Luigia e Isabella in Moravia a Slusovice, seguendo le sorti di molti abitanti della Valsugana. Dopo aver portato via tutto dal molino e sistemato in casa della parente Lucia Prati Agostini, lo vede distruggere dagli austro-ungarici con una carica di esplosivo, in quanto nelle immediate vicinanze passava la seconda linea di difesa.

Viene fatta saltare in aria sul monte Rive anche la “Torre di Sicconi” dei signori di Caldonazzo e di Telvana di Borgo, fatta costruire nel 1201 dai fratelli Alberto e Geremia di Castelnuovo, di cui Eugenio Prati ci ha lasciato un disegno del 1905 e la Villa Stella del pittore Oddone Tomasi.

Partono tutti il 5 giugno alle sei di mattina su un treno per il bestiame, con poche cose, per un viaggio della disperazione di quasi mille chilometri, durato tre giorni.

Nello stesso anno a gennaio, il nipote e pittore Romualdo Prati (1874-1930) figlio del fratello Probo, per non essere arruolato fugge in Italia a Venezia e a Firenze e viene considerato disertore; il fratello Benedetto raggiunge la cugina Raffaella a Villa Agnedo e poi Milano per non essere internato a Katzenau; il nipote Guido figlio di Eugenio si arruola volontario come tenente nell’esercito italiano e il fratello Michelangelo (1865-1913), padre dello scultore Edmondo e del pittore Eriberto, datosi alla macchia nel giugno del 1915 come partigiano filo italiano insieme ad Emanuele Curzel per non essere internato a Katzenau, è ucciso il 13 dicembre, dopo sette mesi di latitanza. Durante lo scontro a fuoco con una compagnia di Landschützen al maso Brocher di Marter in località “Brustoladi” in cui perde la vita Michelangelo, il Curzel riesce invece a salvarsi.

La loro azione di guerriglia e di sabotaggio è abilmente descritta da Mario Garavelli nel giornale “Il Brennero” del 18 luglio 1934: “ha inizio una loro spietata guerriglia condotta con accanimento contro le opere militari austriache, guerriglia sorda ed ostinata, forse l’unica nel suo genere, sul fronte trentino.

Cavi telefonici e telegrafici tagliati, centraline di accumulatori distrutte, segnavia sviati, segnali capovolti, opere di rinforzo stradali crollate. Una volta spintisi fino alla fucine di Val Grande si munirono di seghe del ferro e poco dopo iniziarono il taglio dei cavi della teleferica di Monte Rovere, importante organismo per i servizi logistici dell’Altopiano.

Un infernale frastuono rimbombante nella vallata scosse gli abitanti di Caldonazzo e trovò spiegazione nel fatto che i vagoncini non più trattenuti dal cavo aereo, erano piombati nel fondovalle immobilizzando la teleferica per due giorni. La lotta senza quartiere fu condotta per mesi e mesi senza che gli standschützen riuscissero a por mano sugli audaci che imperterriti continuavano le loro gesta”.

Dopo innumerevoli ricerche del figlio Edmondo la salma di Michelangelo è ritrovata ventuno anni dopo, solo nel febbraio del 1936, sotto le chiome di un gelso presso una casa di un contadino di Barco, usata durante la guerra come comando militare. Nell’aprile del 1936 viene organizzata una cerimonia di suffragio a Barco, nel luogo di ritrovamento della salma, con la presenza del figlio Edmondo e dei fratelli Isabella e Giulio e viene posto un cippo sul luogo del sacrificio come anche nel “Crozzo dell’Agola” sul monte Cimone.

La figlia di Giulio Jolanda Prati (1902-1997), raffigurata in un dipinto del cugino Romualdo Prati, ci ha lasciato un diario che racconta le tristi vicende e le disavventure della famiglia dall’esodo al ritorno in patria e cioè dal maggio 1915 al gennaio 1919, pubblicato nel 2003 nel libro “Profughi for per le Austrie ed in Italia”.

La pro nipote Bianca Prati (1892-1918), immortalata in un dipinto di Romualdo Prati nel 1913, rea di patriottiche attività, ci ha trasmesso un diario che ricorda i dolorosi e travagliati anni della sua segregazione assieme alla famiglia nel Lager di Katzenau dal 1916 al 1917, dove muore la madre Angela Perini il 24 settembre 1916. Bianca all’età di ventisei anni muore per l’influenza “spagnola” a Kematen in Austria il primo novembre 1918, proprio tre giorni prima della fine della guerra quando già vede avvicinarsi il sospirato giorno del ritorno a Caldonazzo.

Ci sembra significativo riportare una frase del suo diario che evidenzia quanta fame abbiano patito i 1734 internati politici trentini rinchiusi a Katzenau “Se tu avessi veduto quanti poveri chiedevano da mangiare, facevano pietà a dover il più delle volte un rifiuto, più volte ho veduto levare la pelle delle patate dalle cassette delle immondizie oppure rosicchiare delle ossa”.

Nonostante le condizioni di profugo Giulio continua a dipingere. Ritrae nature morte, paesaggi e ritratti che gli permettono di alleviare gli stenti della famiglia vendendoli a gente del luogo. Sono di questo periodo alcune opere come “Lepre morava” (1917), “Ritratto della signora Dupralova”, “Scorcio della casa di profugo a Slusovice”, “Paesaggio moravo sul fiume”. In Moravia, in una casa presa in affitto nasce il 9 settembre 1917 Carlo, l’ultimo dei suoi sette figli.

Conclusa la guerra, nel gennaio del 1919 nel freddo di un gelido inverno a quasi sessant’anni ritorna a Caldonazzo viaggiando su una tradotta di carri merci e portando a casa tutta la famiglia disgraziatamente colpita dalla tremenda influenza detta “spagnola” che tante vittime ha mietuto.

E’ ancora oggi gelosamente conservata dal figlio Carlo la stufetta a legna che è servita a scaldare la famiglia durante il viaggio in treno. Arrivati a Trento la moglie e l’ultimo figlio Carlo vengono ricoverati in ospedale perché gravi. Giunto a Caldonazzo con grande difficoltà e con l’aiuto del cognato ing. Umberto Conci inizia la ricostruzione della casa-molino che però non viene completata dai macchinari.

La casa è inaugurata il 23 aprile 1923, anniversario delle nozze d’argento di Giulio e di Maria. Si dedica principalmente all’agricoltura pur non tralasciando di dedicarsi all’attività artistica, che lo vede impegnato soprattutto nella pittura di nature morte e di paesaggi.

Nel maggio del 1920 muore la figlia di dodici anni Aurora (1908-1920) che lascia un profondo dolore in famiglia. Nel 1924 dipinge “Paesaggio invernale a Caldonazzo”, splendido quadro raffigurante la piana di Caldonazzo, imbiancata di neve con le rosee montagne del Pizzo e di Cima dodici al tramonto. Sono di questo periodo opere come: “Bosco di betulle, “Nevicata”, “Fiori di pesco”.

Il nipote e scultore Edmondo Prati (1889-1970) lo descrive “di fisico imponente, intelligente, dotato di fantasia e di eloquenza si accattivava rapidamente la simpatia delle persone; talvolta nel dibattere una questione, sosteneva con impeto la propria tesi. Nato e cresciuto sotto l’impero austriaco, pur essendo da questo favorito con una borsa di studio, fu sempre di sentimenti italiani, come lo fu per tradizione tutta la famiglia”.

Nel 1926 muore la moglie Maria Antonietta Conci, causando un grande sconforto e un vuoto incolmabile. Da allora vive solo al molino nella sua grande casa, aiutato nelle faccende domestiche da una donna di servizio, si dedica all’allevamento di uno stuolo di animali da cortile come oche, tacchini, anitre, galline e le api, passione di famiglia, tanto che il fratello Eugenio Prati nel 1903 vince una medaglia di bronzo all’Esposizione del settore di Vienna con un’arnia innovativa.

Lo scrittore e poeta Raffaello Prati (1896-1980) così descrive i rapporti di Giulio con il pronipote pittore Tullio Garbari (1892-1931) intorno agli anni venti: “In omaggio al rispetto per i non più giovani, il Garbari amava recarsi in mezzo ai suoi meli, alle viti e alle sue api dal cugino pittore Giulio Prati. Per il suo aspetto amava chiamarlo lo zio Prete. In quegli anni Giulio non era più attivo e raramente dipingeva. Però il discorso con Tullio in tema d’arte riusciva sempre spontaneo e interessante”.

Ogni tanto al molino riceve la visita dell’altro pittore caldonazzese Angelico Dallabrida (1874-1959) che è stato sin da piccolo incoraggiato a dedicarsi alla pittura, soprattutto da Eugenio Prati che lo segue in modo particolare. Molto spesso si auto invita a pranzo e in un’occasione Giulio dice ai figli “Questo è un vero pittore!”.

A Caldonazzo alle Rive Giulio durante l’estate dal 1922 fino al 1928 frequenta la Villa Stella del pittore Oddone Tomasi, progettata proprio dall’amico architetto Wenter Marini, la casa tanto amata per la quale Tomasi aveva disegnato gli splendidi graffiti. In questa villa molto spesso si tengono le riunioni del Circolo artisti Trentini ed è qui che incontra Giorgio Wenter Marini, Oddone Tomasi, Luigi Bonazza, Luigi Ratini, Stefano Zuech e Arthur Fasal.

A settembre del 1928 in compagnia del nipote Romualdo, espone a Trento alla prima Mostra d’Arte Trentina con “Uva”. Nel 1930, assieme al nipote scultore Edmondo, partecipa sempre a Trento alla seconda Mostra d’Arte trentina organizzata dal Sindacato Regionale di Belle Arti con quattro opere: “Studio di testa”, “Controluce nel Bosco” del 1929, “Tralcio d’uva” del 1930 e “Cotorno”.

“Giulio Prati espone uno studio di testa così luminoso e vivo e d’un colore così vibrante, da ricordare un poco l’espressività, se non le stravaganze cromatiche di certi ritratti giovanili del Mancini” riporta il critico d’arte Manlio Belzoni nella sua recensione alla mostra nel “Trentino” di quell’anno.

Nel 1933 prende parte alla terza Mostra d’Arte Trentina del Sindacato regionale Belle Arti del Trentino con “Uva”, nel 1936 alla sesta Esposizione sindacale di Bolzano con “Ritratto del musicista Carlo Gomez”, mentre nel 1938 a Bolzano alla settima Esposizione regionale di Belle Arti con “Uva” e “Cascatella”.

Muore nel paese natale all’età di 80 anni, assistito dai figli il 25 novembre 1940.

Trento, 28 dicembre 2003

Alberto Pattini

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